In occasione del cinquecentesimo anniversario della morte del grande Santo calabrese, pubblichiamo uno studio condotto dal prof. Rinaldo Longo che ha per oggetto il ruolo dell’emozione e il problema della trascrizione durante la raccolta delle testimonianze per il processo di canonizzazione.
1- Il problema: Comunicazione linguistica ed emotività
Considerato che del processo cosentino (1512-1513), che contribuì con quello turonense a portare sugli altari San Francesco di Paola, la copia originale, dovuta a Nicola de Sproverio (Sproviero o Sprovieri), non è più reperibile, John Trumper sottolinea che, prima di approntarne una edizione critica, è importante la costruzione di uno stemma codicum(1) che tenga conto del problema della dipendenza tra le varie copie, con verbalizzazione in volgare, esistenti(2), e che vanno valutati correttamente tre problemi:
a) le esigenze notarili di una sintesi processuale;
b) le difficoltà di trascrizione del volgare calabrese da parte di Sproviero, dato che egli non disponeva di una tradizione scrittuale del ‘calabrese’, ma soltanto di tradizioni siciliane, toscane, latine;
c) il problema stesso della scritturalizzazione e della letteralizzazione di un testo orale costituito dalle testimonianze vivā voce dei 102 testimoni, testo che appartiene alla ‘cultura orale’, con tutta la problematica inerente a questa cultura (diversa organizzazione testuale, ecc.), visto che la maggior parte dei testimoni non sono né della nobiltà né della classe degli scrivani(3).
Riguardo ai problemi di cui alla lettera c), Trumper parla di “cultura orale con tutta la problematica inerente a questa cultura”, ma di questa problematica nella parentesi che segue cita solo “la diversa organizzazione testuale” e un inatteso eccetera.
Oggi ritengo che la portata della problematica riguardante la cultura orale possa e debba essere esplicata non tanto, o quanto meno non solo, alla luce della linguistica diacronica, ma principalmente dal versante della psicolinguistica e della sociolinguistica, della semantica e della semiotica, illuminate dai recenti risultati delle neuroscienze su argomenti come il cervello, la mente, le sue emozioni, la coscienza, l’anima. Il tutto nel solco del superamento della dicotomia scienza/spiritualità.
In particolare gli ultimi studi sulla biologia del cervello emotivo ci dicono che “vivere è provare emozioni”, e che “le emozioni sono elementi fondamentali della nostra esistenza”, anche se, quando questa viene impostata sul primato della ragione, sono considerate con sospetto e timore(4).
È stato scoperto che l’emotività umana ha sede, in linea di massima, nell’emisfero destro del cervello, e precisamente, volendo affinare la cosa nell’amigdala: è l’amigdala di alignright che è legata prevalentemente ai meccanismi emotivi inconsci e automatici, mentre l’amigdala di sinistra è legata prevalentemente all’aspetto emotivo cosciente(5).
Il ruolo dell’emotività si esprime più compiutamente nell’ambito dell’intelligenza sociale interpersonale e intrapersonale(6), per cui, ritornando ai nostri testimoni, bisogna riconoscere che nel loro rapporto con Frate Francesco di Paola e alla presenza dei fenomeni miracolosi, dovuti al suo potere taumaturgico, essi provarono sicuramente forti emozioni che ebbero ripercussioni sulle loro coscienze e che li spinsero all’azione, permettendo loro di percepire e comunicare messaggi importanti per la sopravvivenza(7) e per un agire socialmente intelligente(8).
Ora, ai fini del nostro discorso, conviene soffermarci un po’ anche sulla comunicazione linguistica. Essa è un modo per far conoscere e mettere in comunione le emozioni, le sensazioni, le esperienze, i significati e i messaggi che la nostra vita ci permette di cogliere.
Possiamo dire che ciò che comunichiamo è quanto cerchiamo di far comprendere agli altri circa la nostra posizione rispetto a ciò che abbiamo intuito. In ciò che abbiamo intuito e in ciò che vogliamo comunicare, non lo dimentichiamo, giocano una grande parte i nostri modelli mentali e i modelli procedurali della nostra mente, le nostre euristiche, o regole di buon senso, e i nostri bias o credenze o pregiudizi(9).
Ma comprendere e comunicare sono due processi che affondano le loro radici nell’emozione e come tali sono processi problematizzabili (e in particolare quello della comunicazione non è mai concluso con certezza).
Questi due processi vanno spiegati anche facendo ricorso alle circostanze e alle azioni che l’accompagnano, non solo, ma “occorre guardare al «portatore» di una parola per capirne il senso, a ce que l’entoure per disanbiguare i segni linguistici”(10). Non trascurerei anche ce qui l’entoure. È utile tener conto di ciò che sta intorno al locutore e di chi o di quelli che gli stanno intorno. Insomma di tutto ciò che può avere a che fare direttamente o indirettamente con il locutore.
Resta comunque il fatto che le peculiarità del locutore “possono ridursi al minimo, mascherarsi, come avviene nella produzione scritta, dietro formulazioni standard della parole”(11), ed è quello che sicuramente è accaduto attraverso la registrazione notarile, da parte di Sproviero, delle deposizioni rese dai testimoni al processo.
Come abbiamo detto il dato certo è che a trascrivere le testimonianze orali nell’originale del Processo Cosentino del 1512-1513 fu Nicola de Sproverio e sembra non ci sia traccia di deposizioni scritte autografe dovute direttamente alla mano di testimoni, per cui qui si fa riferimento alla copia del processo che è posseduta dalla curia Generalizia dell’Ordine dei Minimi(12), ma la cosa che si vuole innanzitutto puntualizzare è che questo discorso vuole essere di stimolo, sia per me stesso che per altri studiosi, verso una lettura che non solo sciolga problemi di natura linguistica, in particolare scrittuale e culturale, ma che tenga conto di quanto in definitiva, al di là di tutto, la cosa più importante sia il recupero del valore che le testimonianze ebbero per i testimoni stessi, per quelli che vollero il processo, per quelli che lo condussero, per chi decise la beatificazione, per chi decise la canonizzazione di Frate Francesco di Paola.
2- Il valore delle testimonianze
Quanto detto sopra è possibile, per esempio, soffermandoci sul fatto che, come ricordato nella nota 3, dei 102 testimoni ascoltati solo 25 avevano dimestichezza con la cultura scrittuale del loro tempo(13), cioè erano alfabetizzati, mentre 77 erano da considerare analfabeti, cioè detentori solo di una cultura orale, e quindi erano capaci solo dell’espressione orale, che, con l’inevitabile vaghezza e intensità che le sono proprie, veicola una pluralità di significati.
È interessante, allora, andare alla scoperta di quali e quanti segmenti, principalmente nelle deposizioni dei 77 analfabeti, sono diretta trasposizione della loro espressione orale e quali e quanti sono invece interpretazione o, se vogliamo, il risultato di una elaborazione di quella espressione orale. È nel primo tipo di segmenti che si annidano fonetica, lessico e proprietà formali proprie del dialetto usato da ognuno dei 77 testimoni analfabeti. È questo il tipo di segmenti in cui si può cogliere con più sicurezza la parte emotiva della narrazione dei testimoni.
Chi ha capacità scrittuale, invece, possiede un metodo euristico “in cui la sintesi diventa un atto esplicito che conclude un percorso di analisi, rigoroso e preciso, effettuato con la pura ragione”(14), e noi sappiamo che la ragione privilegia la dimensione logica e non quella emotiva, che, invece, è parte fondamentale della conoscenza narrativa.
Ritornando, quindi, al tema principale del nostro discorso, il ruolo delle emozioni nel Processo Cosentino di San Francesco di Paola, non vi è dubbio, e lo chiarirò meglio appresso, esse influenzarono in misura importante le testimonianze al processo. Certamente le emozioni positive che illuminarono le menti e ravvivarono la fede dei testimoni della vita del “minimo delli Minimi dei Servi di Giesù Christo” (come San Francesco stesso si chiamò, dell’Angelo della Carità (come fu definito), irrobustirono in loro il controllo dellle emozioni negative, e per ciò furono spinti a un miglioramento interiore.
2.1- Assenza della superstizione e presenza di religiosità
Le parole del Paolano infatti, come risulta dalle testimonianze, non erano mai ammorbate dalla superstizione, ma erano sempre alito di religiosità.
È il caso qui di ricordare che “nel linguaggio con i caratteri di ‘superstitio’ alberga il marchio della distruttività ai fini di una egoistica sopravvivenza, l’indole immorale di chi soggiace ancora agli istinti della bestialità, nonostante l’evoluzione culturale a livello filogenetico, mentre nel linguaggio con i caratteri di ‘religio’scopri la poesia del divino, della vera scienza, della vera testimonianza, della vera fede, della vera adorazione: quella poesia del divino che nutre le vere grandi anime della storia universale, dalle più anonime e nascoste alle più note”(15).
Da quello che ci dicono i testimoni, comprendiamo che San Francesco con l’esempio della sua vita rese credibili le sue parole, che erano molto semplici, ma si potenziavano di significati profondi e comunicavano emozioni positive e nuove di serenità, di rassegnazione e contemporaneamente di speranza e di pace(16).
Le parole e i gesti di Frate Francesco colmavano, in quelli che andavano ad incontrarlo, anche se solo per motivi di salute fisica da recuperare, un profondo vuoto di Dio, vuoto di Fede, vuoto di speranza evangelica, che si può tradurre in un “vuoto di shalon”(17).
2.2 – San Francesco di Paola: un modello positivo. Miracoli ed emozioni.
La maggior parte delle deposizioni dei testimoni del processo riguardano solo il punto 9 dei dieci punti che interessavano gli inquirenti. È il punto che invita a parlare dei miracoli che Frate Francesco fece (“qualiter in eius vita fecit tale e tale miraculum”).
Certamente fu questo operare miracoloso che impressionò quanti lo conobbero, quanti vissero con lui, quanti da lui furono beneficati. Troppo forte fu infatti per loro, bisognosi di cure materiali e spirituali, l’emozione di trovarsi di fronte ad un uomo Santo in vita, e la sua figura, i suoi gesti, il suo stile di vita, il suo operare non erano cose da poter essere dimenticate.
Ha ben ragione chi dice che attraverso le pagine del Processo emerge la figura di un Santo “semplice tra gli uomini, grande dinnanzi a Dio, trascinatore di popolo, costruttore di Monasteri e Taumaturgo umile e schivo di pubblicità”(18). Così come ha ragione chi ha sottolineato che, “contrariamente a quanto diffuso dalla letteratura profetico- apocalittica, a cui si ispirano e della quale fanno parte Gioacchino da Fiore e Telesforo, San Francesco riesce a radicare su un piano concretissimo la propria testimonianza e quella dei suoi discepoli, rileggendo ed attuando alla luce della semplicità evangelica un modello di vita che anticipa e scavalca la riforma tridentina, che pure volle una riforma in capite et in membris”.
“Sotto questo profilo regola e vita dei frati minimi si condensano attorno al momogramma ‘Charitas’, che sintetizza l’evangelo e chiama con nome appropriato il Dio dei Cieli e della Terra, salvatore e redentore di tutte le genti”(19).
Ma vediamo come e attraverso quali vie queste definizioni e queste considerazioni si sono radicate nella coscienza del popolo devoto di San Francesco.
3- Dall’emozione all’instaurazione della consapevolezza di un modello positivo.
Antonio R. Damasio, che ha riflettuto profondamente sulla biologia della coscienza, afferma che l’emozione “affiora in ciascuno di noi per effetto di induttori che spesso non riconosciamo consapevolmente”(20) e che nella storia evolutiva questa viene prima della coscienza(21), la quale, una volta instauratasi, “con l’aiuto della memoria, del ragionamento ed inseguito del linguaggio […] diventa anche uno strumento per modificare l’esistenza”(22).
Dunque l’emozione permette l’instaurazione della coscienza, la quale con le sue rivelazioni ci permette di pervenire ad una vita migliore per noi e per gli altri, spesso attraverso il rischio, il pericolo e il dolore(23).
San Francesco ha insegnato a volgere in meglio il dramma dell’esistenza umana, egli si è offerto come modello al quale ispirarsi, ha chiesto di dare un indirizzo alla nostra creatività, un indirizzo che ci spinge ad essere e non ad avere, a vivere nella consapevolezza di essere dominati dal bene e non nella consapevolezza di essere dominati dal male.
Il Paolano attraverso la fede in Dio e la conoscenza ed il rispetto della natura e dell’uomo ci ha insegnato come alleggerire il fardello dell’esistenza. Egli con la sua vita quaresimale e da penitente, in un momento storico difficile per problemi sociali, politici, economici e religiosi(24) era un modello di santità da vivo(25), e, “in quanto tale, non solo attrasse a sé vere e proprie moltitudini di gente comune, ma fu anche ascoltato dal potere laico, e incontrò ben presto pure il favore dell’autorità ecclesiastica”(26).
Nell’elogiare il grande Santo di Paola si accenna ai “diversa crebra miracula”, alla “devotio populorum”, al proselitismo e ai “multa bona opera”(27), alla valenza riformatrice del movimento da lui organizzato senza fratture con la gerarchia ecclesiastica(28), però il dato inconfutabile ci proviene dalle testimonianze del Processo Cosentino, dove si evince che Frate Francesco attrae principalmente per i miracoli e per la “bona fama”.
3.1- Miracoli, emozione, coscienza
Ricordiamo che dei 102 testimoni ascoltati in questo processo 80 depongono esclusivamente “super 9°, omissis aliis”(29). Questo dato per Emore Paoli ed altri è ricollegabile alle numerose estrinsecazioni della pietà popolare che proprio in quegli anni rafforzavano “l’idea che la misura della santità non è data tanto dalla qualità dell’attività caritativa o di evangelizzazione, quanto dalla distanza dalla comune misura umana”(30). È questo il dato che cerchiamo di corroborare con questo scritto, come si potrà vedere meglio in seguito, non senza prima sottolineare due elementi interessanti che emergono dalle testimonianze: 1) la consapevolezza di San Francesco e di qualche suo devoto che solo Dio è responsabile del miracolo(31); 2) la consapevolezza che il miracolo va oltre la carnalità “e risulta condizionato dalla preventiva e successiva trasformazione morale del beneficiario, invitato a mondare la propria coscienza”(32).
Emblematica per poter capire il collegamento tra la natura e il divino è la precisazione al prete incredulo che lo interroga sui poteri delle sue erbe: “Non sapiti vui che quelli [che] servono Dio perfettamente et observano li comandamenti soi, le erbe di per ipsi manifestano le loro virtù?”(33).
Sono parole che potrebbero sembrare incomprensibili, criptiche, ma che grazie alla estensione semantica(34) suggerita dalla voce del Santo di Paola, illuminato da Dio, acquistano un chiaro significato di purificazione interna, la sola che permette di distinguere ciò che è utile da ciò che è nocivo, ciò che è giusto da ciò che non è giusto.
Dalle deposizioni dei testimoni ci rendiamo conto che le parole di Frate Francesco avevano permesso loro di estrarre un senso dal caos dell’esperienza, trasmettendo una scintilla di ordine e di vita. Essi usarono bene orecchi, occhi e cervello per ripagare Frate Francesco del dono delle sue parole, perché avevano un senso e non erano per loro un vuoto bla-bla. Erano parole che tornavano di utilità e di edificazione per il popolo.
3.2- Ruolo della intenzionalità.
Prima di passare ad una esemplificazione di una analisi concreta di una delle 102 testimonianze, credo torni utile spendere due parole sul concetto di intenzionalità e il suo ruolo nel nostro assunto.
Come Leibniz ci ha insegnato, la coscienza non può essere riconducibile a fenomeni materiali. I tratti distintivi della coscienza sono la suaintenzionalità e la sua capacità di associare alle rappresentazioni le sensazioni, e gli stati d’animo soggettivi.
Il nostro tema allora richiede di soffermarci su quell’aspetto della mente che, come dice Boncinelli, “è più strettamente intessuto di emotività e si articola su stati d’animo soggettivi”(35).
Quando si parla di ricordi, di sensazioni, di emozioni e di sentimenti, si parla del nostro vissuto personale e privato che è, poi, il nostro modo di vedere e vivere il mondo. Cosa “molto difficile da mettere a disposizione di altri per un’autentica comunicazione e per un’analisi intersoggettiva”(36). Detto questo, c’è da aggiungere che collegati con questo nostro modo di vedere e udire il mondo, cioè con l’essenza degli aspetti fenomenologici della nostra mente, vi è quel complesso di atti finalizzati al raggiungimento di scopi specifici. È tutto ciò che viene chiamato intenzionalità.
Nel nostro caso particolare, il Processo Cosentino, quali erano le intenzioni della Santa Sede, delle autorità ecclesiastiche locali, dei regnanti interessati, dei testimoni nella loro svariata gamma culturale? Diverse. E questo è tutto ciò a cui, fino ad ora, si sono interessati gli studiosi.
Certo il Processo Cosentino fu una delle tante azioni obbligatorie ed ufficialmente volte al fine di portare sugli altari Frate Francesco di Paola. Cosa che avvenne, certamente anche con altri contributi, fra i quali gli altri due processi: quello turonense e quello aggiuntivo calabro.
Difficile è però sapere con esattezza quanto e entro quali limiti il Processo Cosentino poteva influire e quanto vi influì realmente, anche perché non eravamo nella mente di Papa Giulio II, che chiese di istruire il processo di beatificazione 1512, e né in quella di Papa Leone X, che acquisiti i responsi dei processi lo beatificò nel 1513 e lo canonizzò nel 1519.
Come che sia resta il fatto che le intuizioni di coloro che a ciò vollero approdare avevano riconosciuto in Frate Francesco e nel suo Ordine una funzione importante per la vita della Chiesa e per l’edificazione degli uomini e vollero giustamente metterla a frutto. Per gli uomini il riferimento a San Francesco, riconosciuto Angelo della Carità, è un condensato di sensazioni e di percezioni tutt’altro che vuote di contenuto o riferite a un contenuto non specificato.
Aleggia nella parola e nel comportamento di Frate Francesco quello spirito del rispetto dell’uomo che è l’unico vero sostegno della realtà.
Nessuno dei testimoni seppe scindere la figura di Frate Francesco dal senso della Carità e dell’Amore di Dio. Cosa si otteneva andando da Lui? Oltre alla possibilità di trovarsi di fronte ad un uomo di una grande cultura materiale (intendendo con ciò l’insieme dei saperi e dei saper fare che l’uomo è andato accumulando nei secoli) si poteva poi ottenere la sanitàdella mente, dell’anima, dello spirito, prima ancora di quella del corpo. Quindi per mezzo di Lui si aveva la purificazione di quel che di male si era sedimentato sul prodotto intellettuale collettivo, rappresentato dal pensiero dell’uomo del suo tempo.
4 – Testimonianza di Loisius Romeus alla luce delle neuroscienze.
Ma giunti a questo punto proviamo ad analizzare(37) una delle testimonianze del processo cosentino, da esempio quella del teste 102(38), Loisius Romeus de Coriglano Rossanensis diocesis, resa il 19 gennaio 1513.
Cominciamo col considerare la deposizione come il fatto e attraverso questo recuperiamo l’antefatto e quindi l’esperienza vissuta dal teste tramite Frate Francesco; non solo, ma confrontiamo il tutto con le conseguenze.
Ci troviamo di fronte ad un susseguirsi elicoidale di accadimenti, che noi per comodità di analisi facciamo partire dal momento della deposizione, ma che in realtà è cominciato con la creazione della vita e dei suoi derivati: l’intelligenza, la consapevolezza, la cognizione.
Ma ritorniamo a Loisius Romeus (Luigi Romio)(39). Egli racconta della moltiplicazione di una (o più precisamente di una metà di una) delle due focacce (nel testo pitze(40)) portate da due donne coriglianesi ad alcuni gentiluomini che aiutavano San Francesco a costruire il suo quarto convento a Corigliano Calabro:
“ due donne de dicta terra portarono due pitze a certi gentilhomini che erano andati per aiutare dicto frate Francisco. Luna de dicte pitze se magnaro tra loro gentilhomini et homini che fatigavano per portare acqua in absencia de frate Francisco predicto che era andato ad un bosco et retornato dicto frate Francisco dixe vui stati bene et haviti pigliato recreatione et haviti fatto bene et ancora la gratia de Dio ince per tutti et piglao quella picza era restata et la distribuoi a tutti li fatigaturi c[he] erano da trenta personi et a tutti le saciao cum la meta de dicta picza”(41).
Certamente il Romio ha percepito consapevolmente tutto quello che è avvenuto allora, perché l’accaduto è arrivato in modo efficace alle «aree associative» della sua corteccia, ma il processo di elaborazione di quanto è avvenuto si è svolto al di fuori della sua corteccia o più precisamente in quelle regioni sensoriali inaccessibili alla sua coscienza.
Questo equivale a dire che il suo stato di coscienza, cioè l’attività della corteccia cerebrale è stato il prodotto finale di processi di elaborazione estremamente complessi che si sono svolti a livello inconscio in alcuni suoi centri sottocorticali: talamo, ippocampo e sistema limbico, e in particolare l’amigdala, che ha un ruolo primario nella memoria emotiva.
Romio non spiega e non può spiegare come la moltiplicazione delle focacce sia avvenuto. Egli ha percepito consapevolmente ciò che è accaduto (cioè la moltiplicazione della focaccia) perché ciò è giunto in modo efficace alle «aree associative» della sua corteccia cerebrale, anche se la neuroscienza ci dice che la decisione di percepire quanto ha visto come moltiplicazione della focaccia ha avuto luogo a un livello inconscio prima di giungere alla consapevolezza. Questo perché il processo di elaborazione, come la stessa neuroscienza ci dice, avvenuto al di fuori della corteccia o nelle regioni sensoriali, rimane del tutto inaccessibile alla nostra coscienza.
Da tutto ciò emerge l’importanza del sistema limbico(42).
Giampaolo Perna nello studio più volte citato chiarisce la natura delle emozioni “in quanto fenomeni che nascono da quel meraviglioso e complesso organo che è il nostro cervello, organo che si è sviluppato nel corso di milioni di anni cercando di trovare un equilibrio tra la solidità delle esperienze del passato e la necessità di progredire, di guardare al futuro”, e conclude dicendo “proprio le emozioni sembrerebbero essere l’ago della bilancia che tenta di equilibrare la nostra natura «animale» e la nostra aspirazione «divina»”(43).
Quanto detto è una conferma della consapevolezza del Romio di aver intuito giustamente l’importanza della venuta a Corigliano di quest’uomo prodigioso. Egli lo vedeva come un inviato del Signore, al quale si poteva e si doveva dare il terreno su cui costruire la Chiesa e il Convento dei Minimi(44), perché ciò era importante e positivo per il suo bene e per quello della comunità nella quale viveva. Frate Francesco per lui era un segno del Signore, e come una meravigliosa opera d’arte del Signore rappresentava un momento creativo nuovo e buono, rispetto al momento stesso in cui egli viveva. Romio pervenne alla coscienza che il Paolano con la sua ‘anomalia’, il suo comportamento ‘fenomenale’, il suo mostrarsi come ‘prospettiva rivelatrice dell’avvenire’ con la sua parola prodigiosa, era un inviato del Signore(45).
Conclusioni – San Francesco fonte di emotività positiva per la conquista di una spiritualità garante del benessere psichico e fisico.
Ora, avviandomi alla conclusione mi auguro che appaia chiaro come in definitiva questo mio discorso attenga alla scienza e alla fede. Nessuno può d’altronde contraddire che fare scienza è un atto di fede e che fede e scienza tirano la loro origine da una stessa matrice noetica comune che è quella indicante lo stare in una qualche posizionerispetto a ciò che si è intuito.
E allora mi preme qui affermare, qualora non fosse già apparso chiaro, che, contrariamente a quel filone della scienza ortodossa il cui capofila è Jacques Monod(46) e che si basa su una filosofia nichilista di un universo senza senso, dove “la scienza e l’arte, la speranza e la paura sono solo i fortuiti accessori abbellimenti di un affresco dell’irresistibile corruzione cosmica”(47), ho scelto la visione di un universo “governato da leggi ingegnose che spingono la materia a evolversi verso la vita e la coscienza, e attraverso questa, verso la conquista del senso del divino e della spiritualità(48).
Come abbiamo visto le neuroscienze permettono oggi viaggi nei meandri cerebrali delle emozioni e forniscono spunti di riflessioni sulla natura umana e sul funzionamento del nostro cervello. Tutto ciò ci spinge alla convinzione che non solo le parole di frate Francesco di Paola ebbero ed hanno una funzione decisiva per la sopravvivenza dell’umanità, ma anche le pratiche spirituali che egli individuò (la penitenza innanzitutto e la vita quaresimale) fecero altrettanto. Queste pratiche sono fondamentali per il controllo dell’emotività negativa a favore di quella positiva. Quante cose interessanti sull’influenza del Santo di Paola potrebbero, inoltre, essere spiegate attraverso una seria analisi basata sulla semiotica dell’azione!
San Francesco, oggi come ieri, ci insegna che non bisogna considerare la spiritualità una semplice opinione e la scienza sterile meccanicismo. Infatti, solo l’alleanza tra spiritualità e scienza “potrà garantire lo sviluppodi progetti e programmi capaci di indagare la complessità del nostro cervello e della nostra mente e di trovare la chiave per domare e utilizzare la nostra emotività verso la ricerca della felicità” .
Con la sua spiritualità San Francesco di Paola, come Gesù, ci ha mostrato chiaramente come stati mentali quali odio, rabbia, desiderio, orgoglio, gelosia siano condizioni capaci di ostacolare il benessere psichico e fisico dell’individuo, mentre stati mentali quali la compassione, la gioia e l’altruismo sono condizioni insostituibili capaci di favorirlo.
Voglio qui concludere questo mio intervento affermando che il tema di una edizione critica e quindi di una rilettura del processo cosentino di S. Francesco di Paola non comprende solo un discorso sul problema della trascrizione dei testi raccolti dalla tradizione orale, ma anche serie considerazioni di natura interdisciplinare utili alla comprensione del popolo che amò ed ama San Francesco, quel popolo il cui segno distintivo è l’operosità, l’intelligenza e la bontà.
Rinaldo Longo