Ha uno sguardo intenso, triste, pensieroso. Qualcosa ti seduce; vuoi quasi entrare nell’immagine, carpire quel buio, penetrare l’inconscio di lei. London 1952 è una foto di Brandt tra le più riuscite, un’opera dai forti contrasti visivi, nella quale il confine tra il reale e il “surreale” viene oltrepassato, giocando con un’oscurità in grado di alleggerire elementi, pesi ed esaltare i punti luce. Anche Bill Brandt, come Brassai, si serve dell’ombra, assegnandole, però, un ruolo diverso: in Brassai l’oscurità suggerisce ciò che non possiamo vedere e accende l’immaginazione; per Brandt il buio è un luogo intimo, una zona nascosta dell’inconscio.
La foto viene divisa in tre triangoli da un elemento bianchissimo a forma di freccia, che rappresenta il braccio del soggetto. Poche unità dal forte simbolismo ci rimandano ad un immaginifico mondo che fa percepire luci e ombre, desideri e paure; la stessa figura rivela un non so che di surreale, di sognato.
C’è qualcosa di freudiano in London 1952. La foto sembra subire l’influenza della psicoanalisi e noi stessi veniamo coinvolti davanti all’immagine: dobbiamo focalizzare maggiormente l’oscurità che avvolge il soggetto o spostare l’attenzione sul seno illuminato, simbolo materno di attaccamento alla vita? Possiamo perderci nella tristezza di lei o lasciarci ammaliare dalla grazia e leggerezza dei suoi lineamenti? Cosa percepiremo è difficile dirlo. Dipende dal nostro punto di vista: qualcuno vedrà la luce, altri il buio.
Certo qui non appare la donna come scoperta, ma come invenzione, come assemblaggio dei tre elementi essenziali, espressi in un forte contrasto di bianco abbagliante e intenso nero: il risultato estetico è un’armonia di composizione.
La stessa armonia si percepisce in London 1959; i 7 anni di distanza tra le due foto, sembrano portare la composizione verso quello che Gustave Flaubert definiva “l’evoluzione della forma”, la realizzazione di un’immagine astratta e informale nella quale il contrasto tra luce e ombra viene radicalmente estremizzato. Con buona pace, direi, di chi credeva che l’arte astratta e informale fosse solo una prerogativa della pittura.
Anche Portrait of Young Girl si compone di tre piani ben definiti: l’esterno costituito da palazzi illuminati con finestre e balconi in piena luce; la vasta sala buia, ove appena s’intravedono gli arredi rischiarati dalla luce esterna; il volto di una giovane donna distesa supina. È lei il soggetto principale della foto, ripresa in un’inquadratura estremamente ravvicinata, che manifesta un’introspettiva solitudine. Una forte accentuazione della prospettiva tra il particolare in primo piano e lo sfondo sembra aumentare le distanze tra l’io e il mondo, tra lo stato d’animo impenetrabile del soggetto e il chiaro mattino.
Walter Benjiamin, a tal proposito parlava di “inconscio ottico”, riferendosi ad una possibilità della fotografia di esplorare i sentieri dell’anima, di guardare in maniera introspettiva in ciò che di latente vive nella nostra intimità.
Si può restare chiusi nella stanza di Portrait of Young Girl, coperti dall’oscurità, oppure guardare fuori dalla finestra e lasciarsi riscaldare dalla luminosità che viene dall’esterno. Qualunque scelta si faccia, ammirando le immagini di Brandt, è indubbio che la fotografia abbia ormai varcato la porta di Talbot, entrando in luoghi propri della pittura o di altre arti, come la ricerca e l’indagine interiore.
Noi entreremo e usciremo da questa porta, dialogando con i grandi fotografi documentaristi e con quelli che hanno scelto delle strade diverse, privilegiando la ricerca interiore o, come commentò Szarkowski, “…nuovi scopi maggiormente personali”.
Diego Pirozzolo
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