HomeIn primo pianoCammino di Santiago di Compostela - Terza tappa - Verso il monastero...

Cammino di Santiago di Compostela – Terza tappa – Verso il monastero di Samos

Cammino di Santiago di CompostelaLa cena viene servita alle 19:30, ed io sono fra i puntuali. La sala da pranzo è gelida, ma il fumo che si sprigiona dalle pentole, le bottiglie di vino e le persone che cominciano ad arrivare e a stringersi intorno al tavolo, mi rincuorano. Il caldo gallego (una zuppa di verdure e carne) è superbo e faccio il tris. E’ in questa tavolata che, fra molti tedeschi, un franco-canadese, un belga e qualche olandese, incontro Raffaele, medico e primario ortopedico.
Mi appare, all’inizio, come un signore un po’ mattacchione, con la sua parlantina irrefrenabile. Poco più tardi, scoprirò invece che è un medico e di quelli con la testa quadrata;  dividerà la camera con me e, con i suoi racconti di vita familiare e professionale, scaccerà via la solitudine e il malumore di quel pomeriggio.

Il giorno dopo, fatta colazione insieme, mi saluta con un sorriso e procede, mentre io sono ancora alle prese con lacci e stringhe.
Fra pellegrini ci si accompagna, ma non ci si intralcia. Ci si incontra, ma non ci si perde in cerimonie. Quando si tratta di andare ci si saluta e si procede. Ci siamo scambiate le e-mail e mi ha detto dove posso trovare un buon ortopedico dalle mie parti, per una revisione alle ginocchia. Adesso ognuno ritrova la sua strada.

- Advertisement -

Quando esco, fa freddo ma il cielo è chiaro, come da previsioni. Seguo ancora la statale, cammino quindi da solo, tutti gli altri seguono il sentiero. Incontro  ciclisti, alcuni dei quali mi salutano, e qualche macchina. È la domenica de los Ramos, 5 aprile, giorno 2 del mio cammino, e anch’io raccolgo un rametto da una pianta ai bordi della strada, sperando che dal cielo cadano sufficienti benedizioni. Il sole è una di queste,  una delle più grandi. Scendendo, mi si spalanca da un lato lo spettacolo di una valle sulla quale galleggia un mare di nuvole. È come un prato bianco in sospensione, sotto di me. Dovrò camminare un paio d’ore per entrare in quelle nuvole e spuntarne dal basso.  Nell’approssimarmi a Triacastela, incrocio di nuovo il sentiero che attraversa la statale e supero il borgo di Pasantes, dove Conchita, una signora di lì, mi spiega la funzione di quell’enorme ciminiera che vedo di fronte a me e che spunta dai tetti di lastre di pietra nera (pizarra). Nelle vecchie case di campagna, il fuoco si faceva in mezzo alla casa e ci si sedeva tutti intorno. Quel gran camino serviva ad aspirarne i fumi.

caseConchita mi dice anche che a Triacastela c’è messa all’una. Una occasione per il mio rametto e per me di festeggiare la Domenica delle Palme, in memoria del Pellegrino per eccellenza che entra a Gerusalemme sul dorso di un mulo, per dare compimento alle antiche, terribili, ma straordinarie profezie  del suo popolo.

Arrivo a Triacastela verso le dodici. Metto il timbro (sello) nel primo Albergue e anche nel secondo.  Uno di essi è un edificio storico ristrutturato, con dentro una esposizione di paramenti sacri, fra i quali pranzano, seduti al tavolo, due signori francesi. Ritorno sui miei passi per esplorare la stradina centrale del  paese, che mi porta verso la chiesa. Scopro così che in Galizia le chiese sono circondate dalle tombe, un po’ come in Inghilterra, con la differenza che qui le tombe sono fatte come da noi, non c’è solo una lapide che spunta dal terreno; e così le chiesette risultano un po’ soffocate da questa cornice. Comunque, la chiesa ha la solita grazia delle antiche chiese del cammino, unita alla solidità della pietra e alla luminosità del Retablo rococò, la grande pala d’altare in legno dorato, che ricopre l’intera parete alle spalle dell’altare e che contiene varie statue, fra cui non manca  quella raffigurante Santiago (San Giacomo) con il bastone, la vieira (conchiglia) sull’ampio cappello e la zucca secca usata come borraccia.

Triacastela - Interno della ChiesaAl parroco, prima della messa, chiedo un’altra credencial, la mia è ormai quasi piena  (con i timbri dell’anno scorso) e me ne serve una nuova per i timbri che devo apporre fino all’arrivo, per dimostrare di aver percorso almeno gli ultimi 100 km del percorso e chiedere la Compostela, il certificato che attesterà l’avvenuta peregrinazione alla tomba dell’Apostolo.

Ma questo non deve far pensare a chi legge che il pellegrinaggio sia una cosa per fedeli e parrocchiani soltanto. Il parroco l’avrebbe data a chiunque gliene avesse fatto richiesta. Vedendomi poi interessato, mi ha anche regalato alcuni fogli di riflessioni sul cammino. Sono in italiano. Mi mostra il mobile di sacrestia invaso di fogli in decine di lingue. I pellegrini lo  hanno aiutato a creare questa specie di babilonia parrocchiale a disposizione degli altri pellegrini di passaggio, traducendo i suoi pensieri. Ancora una volta, antico e moderno si incontrano sul cammino e quei mobili intarsiati al tempo del latinorum traboccano di fotocopie che parlano tutte le lingue moderne del mondo.

Durante la messa, il parroco alternerà all’uso dello spagnolo la lingua locale, il gallego, rivolgendosi ai suoi parrocchiani che, evidentemente, conosce uno per uno e da molto tempo. Mi dispiace non poter  prendere parte all’ilarità che suscita con le sue battute, perché non sono sempre in grado di seguirlo.

Il gallego è una lingua affine al portoghese, ha anche una sua tradizione letteraria, viene scritta oltre che parlata, ed è usata dai giornali, dalle televisioni e dagli enti di governo locale.

Uscito dalla messa incontro la signora olandese del giorno prima, occhieggio i menù dei bar, ma mi risolvo a proseguire con in corpo le banane consumate all’arrivo, che dovrebbero dare abbastanza carburante ai muscoli per spingermi fino al monastero di Samos, altri 10 km più in là.

Lungo la strada mi viene incontro un signore che spinge un grosso carrello. Quando ci incontriamo è lui il primo a parlarmi in italiano, ma con forte accento tedesco. È di Berna e ha programmato il ritorno a casa sua da Santiago in tre mesi. “Il tottorre mi ha detto: se tu porrti zaino sulla spalla, tu non torrni indietrro”. E così si è costruito un grosso carrello di metallo colorato di giallo, con manici,  ruotine di bicicletta  e freni (per le discese, mi spiega), un telaio e una rete sulla quale appoggiare e fissare i suoi bagagli. Si chiama Felix, ha un bel paio di baffi, mi augura buona fortuna, con le sue erre rutilanti e le sue ti teutoniche e procediamo dandoci le spalle, ma rincuorati in fondo dalla scoperta di avere dei compagni di cordata che usano mezzi simili per raggiungere lo stesso scopo.

La strada affianca un fiume ed io conto i chilometri seguendo le indicazioni. Dopo un’ora compare un villaggio con un bar sulla strada. Un altro café con leche e qualche magdalena sono indispensabili, prima dell’ultimo sforzo.

Dopo un’altra ora, verso le quattro, e dopo aver attraversato il paese di Renche, dove incontro un gruppo multinazionale di colleghi che avevo già visto a Triacastela, sono in discesa, con il ginocchio che fa un po’ male e un gruppo di ragazzi a passeggio sull’altro lato della strada che grida “Fuerza peregrino, que casi llegaste!” (Forza pellegrino, sei quasi arrivato!). Cerco di raggiungere la curva, oltre la quale spero di vedere il famoso convento. È la prima vera tappa, ho ormai più di 20 km sulle gambe, contro i 16 del giorno prima, e la differenza si fa sentire. Camminare sull’asfalto, inoltre, rende facile spostare il carretto, ma ha un impatto più duro sulle articolazioni.

Monastero di SamosDopo la curva, ancora niente; vedo il km 37  e continuo a scrutare, come se temessi di aver sbagliato strada;  finalmente, fra i rami degli alberi, appare una struttura imponente e si sente il suono delle campane.  C’è ancora un’ampia curva da fare, che sembra non voler finire. Ora mi prende la solita febbre dell’arrivo. Troverò posto, o è già troppo tardi? Entro, vedo dei letti liberi, riconosco lo zaino di Raffaele, dico all’hospitalero di volermi sistemare da quella parte.
Jesus, così si chiama, si ferma, mi guarda, spalanca le braccia e dice:
bueno, calma… primero, deja que te abraze!”  (Bene, calma, come prima cosa, lascia che ti abbracci!).
Tutta la tensione si scioglie all’istante in quell’abbraccio, il posto c’è, sono a casa, fra un po’ potrò anche togliere le scarpe e sedermi, lavare qualcosa e metterla ad asciugare, fare la doccia e stendermi sul letto. Per il momento metto un altro timbro, mi registro, scambio due battute con Jesus.  Per oggi è fatta. Sono ancora in cammino.

Vincenzo Continanza


Segui il viaggio:

Prima tappa: In Galizia sul Cammino per Santiago di Compostela

Seconda tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Da O Cebreiro a Fonfria

Terza tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Verso il monastero di Samos

Quarta tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Il tempo del pellegrino

Quinta tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Verso Ferreiros

Sesta tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Arrivo a Hospital de la Cruz

Settima tappa: Sul Cammino di Santiago di Compostela tra ricordi e sogni

Ottava tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Compagni di viaggio

Nona tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Sosta a Casanova

Decima tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Arrivo a Ribadiso

Undicesima tappa: Cammino di Santiago di Compostela – 40 chilometri alla meta

Dodicesima tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Sosta a Santa Irene

Tredicesima tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Verso Monte do Gozo

MOSTRE

La Sapienza Università di Roma - Foto di Diego Pirozzolo
Fondazione Roma Sapienza, “Arte in luce” X edizione

LIBRI