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Gerardo Ferrara, La scuola di maglia – Incontro con l’autore

Gerardo Ferrara, La scuola di maglia - Copertina del libroAll’una sono già in Piazza delle Coppelle, mentre Gerardo Ferrara arriva qualche minuto dopo di me. Due carbonare, due carciofi alla romana, un po’ di vino ed iniziamo subito a parlare del suo ultimo romanzo “La scuola di maglia“, con cui Gerardo, tra un gomitolo e l’altro, ha avuto il potere di trasferirmi in Basilicata e farmi sentire la morbidezza dei tessuti, intesi come parole intrecciate una sull’altra per cucire una storia bellissima, morbida, elegante, ricca di colori e sfumature.
Che sguardo ha l’autore! Lo scruto. È vivo, acceso, intelligente, quasi contrasta con il garbo e la compostezza dei modi. Si può discutere di tutto, dall’ultimo Barbiere di Siviglia andato in scena all’Opera di Roma, alla consistenza dell’uovo nella carbonara, fino alla Visitazione di Federico Barocci.
Ho avuto il piacere di leggere il romanzo un po’ di tempo fa, dopo la stesura definitiva. Era una calda estate e su una spiaggia dell’alto Ionio cosentino sfogliavo le ultime pagine del libro. Il Pollino si vedeva sullo sfondo: dominava la pianura, al tramonto copriva il sole che si ritirava per conto suo dall’altra parte del promontorio; lì c’era il paesino di Penelope (la protagonista), proprio adagiato su quella montagna. Continuavo a scrutarlo, mentre il cameriere del lido mi serviva un cocktail a base di Tequila e un’amica girava intorno al mio ombrellone proponendomi i soliti programmi della serata. Ma il romanzo mi aveva scaraventato in un altro luogo, in un altro tempo, mi aveva quasi fatto innamorare di Penelope e così, compromesso con la storia, ho guardato un’ultima volta il Pollino dalla spiaggia. In un attimo il cocktail era sul bancone, lasciato a metà; non c’era traffico sulla strada, ho ingranato la quarta, la radio era accesa, l’amica protestava: non sapeva dove saremmo andati. Dovevo raggiungere quel paese, avevo bisogno di respirare, di toccare i luoghi raccontati da Ferrara, di prendere un caffè in quella piazza, anche se sapevo che non avrei incontrato Penelope, o forse sì, del resto i romanzi ben scritti hanno il dono di proiettare i personaggi oltre il tempo e la storia.
Ma torniamo a Piazza delle Coppelle: è Il momento delle domande, finito il pranzo, bevuto il caffè, ci concentriamo su La scuola di maglia.

Con questo secondo tuo lavoro ci chiudi in casa in un piccolo paesino della Lucania. Si esce poco e quando lo si fa, anche solo per andare a prendere un caffè nel bar della piazza, la passeggiata ha quasi un effetto dirompente. Una storia costruita principalmente tra le mura di un antico palazzo signorile, dove però in ogni pagina si ha sempre la sensazione che succeda qualcosa, non solo nel senso di azioni imprevedibili, ma anche e soprattutto che si smuova l’animo della protagonista: insomma susciti la curiosità nel lettore, curiosità quasi morbosa di capire quale piega prenderà la vicenda ed in particolare quale tipo di evoluzione o anche involuzione interiore vivrà Penelope. Si rimane dunque attaccati al romanzo e una volta chiuso il pensiero torna ancora sulla vicenda. Hai la grande abilità di creare empatia tra i lettori, senza usare trucchi di stile o espedienti letterari, semplicemente attraverso una scrittura fluida, aderente alla storia che racconti.
Come nasce questo romanzo che è molto diverso dal primo (“L’assassino di mio fratello“), ma altrettanto emozionante
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Grazie mille per le bellissime parole, innanzitutto! Rispondendo alla tua domanda, invece, devo dire che anche questo romanzo, similmente al primo, nasce da un dolore e da una mancanza, da una ferita dell’anima: il trovarmi per un lungo periodo lontano da casa e il ripensare alla perdita di due donne che hanno influenzato moltissimo la mia vita, ovvero le mie due nonne, una del Nord e una del Sud. Il loro modo estremamente diverso, a volte opposto, di concepire la femminilità, la bellezza, la maternità, la passione e l’amore mi ha indotto a concentrarmi sulla donna in generale, anche attraverso figure importanti dell’arte, della musica e della letteratura. Ho studiato a fondo la vita di Maria Callas, di Whitney Houston, di Giuni Russo, ho letto attentamente Anna Karenina di Lev Tolstoj e le rime di Isabella Morra, grandissima poetessa della mia terra d’origine, la Basilicata. Ho voluto creare dei personaggi femminili che s’ispirassero in parte alle figure che ho citato ed in parte alle donne che ho conosciuto e che ho amato, per una storia che è ambientata in un’epoca e in un luogo precisi ma che, come ogni romanzo, trascende i tempi e i luoghi e parla dell’essere umano in generale, delle sue paure, delle sue ferite, dei desideri e dei contrasti dell’anima.

Parliamo di Penelope, scrivi che è di Torino e che si trasferisce in un paese della Basilicata, in realtà lei è senza dubbio “Russa”, nel senso di un personaggio uscito da un grande romanzo russo e lo dico perché in lei sono tipici i tormenti, le dissipazioni, le vanità, i conflitti aspri interiori, le tentazioni, i caratteri insomma dei personaggi di quella specifica tradizione letteraria, con la capacità però di redimersi, di trasformare la sua battaglia con se stessa e col mondo in una grande battaglia di libertà e civiltà. Quando incontri un personaggio così, ti piacerebbe davvero conoscerlo. Io ti confesso che ne sono innamorato.

Indubbiamente gli scrittori russi, Dostoevskij e Tolstoj in particolare, sono dei maestri cui ogni narratore o aspirante tale (io sono soltanto un umile discepolo) deve saper attingere. Per me sono punti di riferimento, come lo è Eugenio Corti, un grandissimo romanziere italiano vergognosamente misconosciuto in patria. Ci sono poi i grandi classici, e penso alla poetessa Saffo, o ancora Isabella Morra, che ho già citato. Tutti sono maestri da un punto di vista tecnico e per la costruzione dei personaggi di un romanzo. La più grande ispirazione per un narratore, tuttavia, è la vita vera, nonché le persone che incontra, i dolori, le gioie, le passioni. La mia Penelope, come la Penelope di Ulisse, è una donna che grida e si aggrappa ad ogni costo alla vita, alla bellezza, o almeno a quelle briciole di bellezza che le rimangono, per non morire; è una donna che tesse, che attende, che si barcamena tra le avversità con artifizi tutti femminili. Resterò sempre affezionato a lei e alle sue amiche. In fondo, tutte loro rappresentano un mondo antico che è ormai scomparso, ma che pure ho conosciuto bene nella mia infanzia: la casa, le mie nonne e le donne paesane, il borgo con i suoi sapori, colori e profumi cangianti a seconda delle stagioni… Se sono riuscito a mantenere vivo almeno un po’ il ricordo di questo piccolo mondo antico, allora sono felice di aver scritto questo romanzo. Le donne cui ho voluto rendere omaggio, quelle nella realtà, intendo, quelle che mi hanno ispirato, meritano che qualcuno si ricordi di loro per sempre.
Talvolta mi capita, dopo aver letto un bel libro, di affezionarmici come a una persona e di ripensare ai protagonisti di quella storia come si farebbe con degli amici. Quando ciò avviene, è strano spiegare come ci si sente: io, in particolare, mi commuovo e arrivo persino ad abbracciare quel libro, ad accarezzarlo, a metterlo in evidenza sulla scrivania o in libreria per non dimenticarmene! Lo tengo lì in vista per ricordare qual è la missione di un narratore: regalare un amico a chi legge, tenere in vita sentimenti, storie, emozioni che ricordino agli uomini qual è la loro vera essenza, il loro destino di esseri nobili, degni, preziosi, immortali, e non semplicemente oggetti, clienti o consumatori. No, gli uomini sono stati creati per l’eternità.
Pensa che nelle antiche tribù germaniche il cantastorie veniva chiamato “bern hard”, valoroso con gli orsi (da cui il nome Bernardo) perché scacciava gli orsi e teneva lontani i pericoli materiali e spirituali dal villaggio. Era lo sciamano della tribù, il depositario delle arti magiche e dello spirito collettivo della comunità, in pratica il custode dell’umanità degli esseri umani che doveva proteggere e incoraggiare, che era tenuto a dare speranza e a perpetuare le tradizioni. Ecco, io vorrei essere quel tipo di cantastorie e di narratore. Troppa ambizione? Può essere, ma io credo in Dio e a Dio tutto è possibile!

C’è poi Antonio, un piccolo capolavoro. In lui si possono isolare i grandi nodi che legano l’anima: vanità, egoismo, ira, cupidigia, ecc., equamente dosati nel suo io. In base alle circostanze individuiamo ora l’uno ora l’altro, tuttavia, e credo così sia la vita, il giudizio si deve fermare: quell’uomo capace di uccidere e violentare può amare, trasformarsi in bambino, pentirsi, essere premuroso. Mi piace pensare che quell’applauso di sfida, nelle scene finali, nasconda tra le smorfie, il dolore per una partita persa, non con Penelope, ma con la vita e con la possibilità di essere felice. Ovvio che questa è una mia opinione, ma quando un personaggio prende vita, l’inchiostro si trasforma in sangue ed anche i giudizi possono variare, come capita per le persone vere.

Sì, è proprio così. Come essere umano, ho la tendenza ad essere pessimista circa la natura degli uomini e a fare un po’ mio il detto “homo homini lupus”. Tuttavia, da cristiano, non posso non ricordare che il desiderio di bellezza, bontà e verità è inscritto in ogni uomo e che siamo altresì dotati di libertà individuale, che possiamo scegliere tra il bene e il male. Il problema, a volte, è che il bene non ci viene annunciato, non abbiamo speranze cui aggrapparci, le cattive notizie sono all’ordine del giorno e il pessimismo impera. Altre volte, invece, scegliere il bene costa grande sacrificio e, si sa, in determinate situazioni, quando poi costa importanti rinunce a parvenze di beni acquisiti con il potere ed il successo, oltre che al proprio orgoglio personale, fare una scelta in funzione del bene non è sempre l’opzione più facile, anzi, è un po’ come morire. E in questo romanzo ho voluto un po’ tratteggiare, nei diversi personaggi e in quello della protagonista in particolare, la tendenza al dare e al prendere la vita.

Grazie per questa intervista, ma una domanda è d’obbligo. Stai lavorando ad altri progetti? Siamo comunque lieti di poterti seguire e personalmente non vedo l’ora di conoscere altri personaggi ed evadere in altre storie, in altri mondi semplicemente aprendo le pagine dei tuoi romanzi.

Sì, sono impegnato nelle ricerche e nella stesura del mio nuovo romanzo, che avrà a che fare con la guerra in Siria, un tema delicato che, per quanto lontano potesse sembrare, abbiamo scoperto in realtà essere molto, molto vicino. È una sfida nuova, difficile e appassionante, incentrata sul desiderio di grandezza, di paradiso, di immortalità. A me, però, piacciono le sfide e penso che essere un narratore, un artista, come dicevo prima, sia una missione, come diceva Kierkegaard: “Ci sono uomini il cui destino deve essere sacrificato per gli altri, in un modo o nell’altro, per esprimere un’idea, ed io con la mia croce particolare fui uno di questi”.
Grazie mille.

Diego Pirozzolo

Copertina libro
"Il bambino che rientra dalle vacanze. Infanzia e felicità" - Il nuovo libro di Raffaele Mantegazza
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La Sapienza Università di Roma - Foto di Diego Pirozzolo
Fondazione Roma Sapienza, “Arte in luce” X edizione

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