La prestigiosa Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo Ducale, di Urbino ospita l’esposizione “Ori e Argenti. Capolavori del Settecento da Arrighi a Valadier”, dal 4 aprile al 4 novembre 2007, promossa dalla Soprintendenza per il Patrimonio Storico Artistico e Etnoantropologico delle Marche, prodotta e organizzata da Arthemisia.
A cura di Jennifer Montagu e Gabriele Barucca, la mostra intende approfondire uno degli aspetti più caratterizzanti e poco conosciuti della civiltà artistica del Settecento nelle Marche: la diffusione nella Provincia Pontificia della Marca di argenti sacri e profani provenienti da celebri botteghe di argentieri romani.
Gli oggetti presentati sono emblematici nel loro complesso dell’altissimo livello qualitativo raggiunto dall’arte orafa romana nel Settecento e offrono inedite prospettive alla conoscenza della storia del gusto.
Nonostante la maggior parte di ciò che costituiva il patrimonio orafo della Regione sia andato perduto (in epoca napoleonica, per esempio, le pesantissime conseguenze del trattato di Tolentino costrinsero Pio VI a requisire gli argenti esistenti a Roma e negli Stati della Chiesa per pagare l’indennità di guerra impostagli da Napoleone), la ricognizione intrapresa da diversi anni ha consentito di raccogliere un considerevole numero di pezzi di eccezionale rilevanza per la storia dell’arte orafa.
La mostra consente di ammirare pezzi che compongono alcune straordinarie raccolte tra cui il tesoro di Sant’Urbano ad Apiro, e inoltre quelli della basilica di San Nicola a Tolentino, delle collegiate di Visso e di Ostra Vetere, della Cattedrale di Ancona e di Urbino, e del Museo Piersanti di Matelica.
Moltissimi i pezzi di argenteria sacra: splendidi busti e statue, libri liturgici, calici, ostensori e reliquiari, commissionati da vescovi e canonici in continuo “andare e venire” dalle cittadine della Marca a Roma, e da alti prelati di origine marchigiana, residenti nell’Urbe, ma sempre attenti a gratificare con doni preziosi le città di provenienza.
Molti anche i pregevoli pezzi di argenteria profana: oggetti da tavola, da scrittoio, da illuminazione (ancora conservati presso collezioni private della Regione) ordinati agli argentieri operanti a Roma dalle famiglie della nobiltà locale, impegnate ad arricchire le loro nuove o rinnovate dimore, grazie al notevole miglioramento delle condizioni economiche del tempo.
Una sezione della mostra è appositamente dedicata alle tecniche e agli strumenti della lavorazione dei metalli nobili con la presentazione di alcuni attrezzi usati dagli argentieri. A corredo è presentato l’inedito Taccuino di una bottega orafa in cui sono appuntati diversi segreti e procedure di lavorazione dei metalli nonché disegni di oggetti. Viene, inoltre, preso in esame l’affascinante problema della bollatura degli argenti che soprattutto nel corso del Settecento vide gli artefici attivi a Roma inventare i simboli dei propri punzoni personali giocando con grande fantasia alle volte coi loro stessi nomi.
L’analisi dei bolli si è dimostrata, inoltre, utile, attraverso il confronto con i repertori del Bulgari e della Bulgari Calissoni, per l’individuazione di alcuni degli argentieri più prestigiosi attivi a Roma nel Settecento, ai quali è stato possibile riferire con sicurezza alcune splendide opere ancora conservate nelle chiese e nei palazzi della Regione.
Tra i tanti argentieri documentati in mostra vi sono Giovanni Giardini, Giovan Francesco Arrighi e suo figlio Antonio, Francesco Giardoni, gli Spinazzi, Stefano Lepri, Ludovico Barchi, Antonio e Tommaso Politi, Francesco De Martini, Giuseppe Achen, Giuseppe Nepoti, Domenico Mariani, Filippo Tofani, Giovanni Gagliardi, Bartolomeo Boroni, Agostino Corandelli, Vincenzo Belli, Lorenzo Petroncelli, Carlo Bartolotti, Luigi e Giovanni Valadier, Paolo e Giuseppe Spagna.
Il linguaggio imposto dall’egemonia di Roma, centro propulsore della vita politica e culturale della provincia pontificia, costituisce un modello di riferimento per la produzione locale. Le indagini degli studiosi hanno consentito di individuare alcuni protagonisti, artefici e committenti, di questa felice congiuntura e le opere che questa aveva prodotto. Alle opere che arrivano da Roma si aggiungono dunque pezzi realizzati da argentieri operanti in loco, ma che ripetono fedelmente i prototipi romani.
Di molti artefici sono rimasti soltanto i nomi nei documenti d’archivio, mentre le loro opere per la maggior parte sono andate perdute. A titolo esemplificativo resta l’attività degli argentieri maceratesi della famiglia Piani, del fermano Raffaele Antonelli e dell’anconetano Mascioni.
Il catalogo della mostra è pubblicato da Skira.