Domenica mattina, il sole splende in cielo e il ricordo della maestà del Pollino è irresistibile. Decido di trascinare alcuni amici sulla terza vetta del massiccio: Serra del Prete. Il nome mi fa sperare che il mio parroco mi perdoni l’assenza alla messa domenicale.
Appena percorso il sentiero che conduce dal piano di Ruggio, in prossimità del rifugio De Gasperi, al Belvedere del Malvento, si comincia a salire, in prossimità di un dirupo, verso la cresta che conduce fino alla cima. Su quel dirupo si gode la vista dei pini loricati, imponenti, abbarbicati ai costoni rocciosi, quasi sospesi sul vuoto, e la vista spazia, verso Sud, fino ad inquadrare la piana di Sibari, il tracciato dell’autostrada, le cime della catena costiera ancora innevate.
I miei compagni arrancano, li attendo, li incoraggio. Ma c’è un vociare in lontananza, è un folto gruppo di coraggiosi escursionisti; non ne avevo mai incontrati tanti nelle mie uscite quasi sempre solitarie. Il desiderio di raggiungerli è più forte della preoccupazione per i compagni che mi costringono a continue soste. Viene il momento di addentrarsi in un boschetto e dopo aver fatto alcune raccomandazioni a chi mi segue a distanza mi inoltro aiutandomi col bastone. Passo dopo passo supero anche il boschetto, riesco sotto il cielo azzuro e luminoso, comincio a incontrare alcune retroguardie del folto gruppo, scambio con loro alcune battute di “avvicinamento”. In montagna non c’è bisogno di presentazioni: l’aria, la luce, persino le pietre, nella loro essenziale semplicità, restituiscono un naturale equilibrio alle relazioni che l’uomo intrattiene con se stesso e con gli altri.
Chi mi seguiva è ormai laggiù nel bosco, quassù la salita si fa sempre più erta e dura, mentre, intorno a noi, alcune delle vette che dal piano di Ruggio si ergevano imponenti si son fatte quasi compagne addomesticate, camminiamo spalla a spalla con loro. Sono preoccupato per chi si è avventurato con me e non riesce a starmi dietro, ma il panorama intorno si apre a dismisura, ad ogni passo si fa più ampio. La nevrosi delle pareti di casa, che troppo spesso si chiudono intorno a noi riflettendo, come specchi deformati, i fantasmi delle nostre peggiori paure, cede il passo a quella meraviglia e gratitudine di vivere che la montagna restituisce anche nei momenti più bui.
Colgo una certa diffidenza verso di me che, ansimante, mi affretto in mezzo a questo gruppo di sconosciuti ai quali mi rivolgo come se li conoscessi, perchè chi ama la montagna tanto da ansimare come me lungo questa salita è “naturaliter” amico mio, o almeno è così che io li percepisco.
Sul telefonino cominciano ad affollarsi i messaggi. Provano a chiamarmi ma non riescono. Ormai sento l’attrazione della cima, un magnetismo che non si può spiegare a chi non l’ha provato, qualcosa di molto simile ad una seduzione, ad una passione invincibile. È questo richiamo che rende un piacere accanirsi in una fatica che ad altri apparirebbe gratuita o pazzesca.
Apprendo, mentre salgo, di trovarmi in compagnia di un gruppo del CAI (Club Alpino Italiano), nato a Cosenza nel 1985. Più in là scoprirò che v’è più di un gruppo: quello di Cosenza, quello di Castrovillari, quello di Rossano. Lungo il cammino ascolto l’inconfondibile accento napoletano di uno dei coraggiosi viandanti. Prendo atto di trovarmi nel bel mezzo di una varia e variopinta umanità che dalla passione per la montagna ha tratto la forza di far vivere una associazione.
Il mio telefonino continua a perseguitarmi e l’ansia e il desiderio di raggiungere la vetta confliggono con la preoccupazione ed il senso di colpa per avere seminato i miei amici. So che vorrebbero che mi fermassi, ma è precisamente quello che non voglio fare. Proseguo e qualcuno che ha ascoltato e riconosciuto la mia voce, una mia vecchia amica, esclama il mio nome. Mentre salgo, la riconosco anch’io. Mi parlerà, in vetta, della bellezza di questa associazione, di quante amicizie siano nate dalla frequentazione di questo gruppo di amanti della montagna.
Sulla cima, a 2.181 mt, dopo aver attraversato ampie lingue di neve e “vinto” i 600 mt di dislivello che ci separano dal Malvento, percorrendo pendenze – da quel che sento – superiori al 30%, vedo di fronte a me i 2.053 mt della Serra di Crispo, i 2.127 della Serra delle Ciavole, la cima del Pollino propriamente detta che da questa prospettiva nasconde, dietro se, i 2.267 del Dolcedorme. Il vento mi sferza e la felpa di riserva con il cappellino di lana, stipati nello zainetto col binocolo e la mia vecchia reflex, mi salvano da qualche malanno.
Altri, più esperti conoscitori di quel paesaggio, mi indicano da un lato S. Severina, in Basilicata. Io riconosco l’Alpe di Latronico. Riecheggiano i nomi che avevo solo letto sulle cartine: piano dell’Acquarone, sorgente Spezzavummulo, torrente Frido. Nomi sconosciuti a chi non percorra queste montagne, eco di un paradiso perduto per chi si sia addentrato in queste valli e su queste cime.
Finalmente mi seggo vicino alla mia amica che mi passa un pezzo di deliziosa pizza rustica. Le mie provviste sono rimaste nello zainetto di mia moglie e al posto dell’acqua, lungo la salita, ho masticato la neve. Altri fanno girare qualche buon bicchiere di vino rosso, altri ancora wafer o mostaccioli.
Chiedo quali altre escursioni sono in programma per le prossime settimane e mi viene offerto un programma stampato a cura del CAI. Mi colpiscono, fra le altre iniziative, quelle che comprendono i sentieri verso il Santuario di S. Francesco di Paola, ma anche quelle che prevedono di ripercorrere gli itinerari dell’altro grande Francesco di Assisi, in una trasferta verso la città di Rieti.
Sulla via del ritorno incontro una signora inglese, innamorata anche lei di queste montagne. Poco distante una ragazzo che viene dall’Olanda. Sono gli Stati Uniti del Pollino. E la Costituzione è scritta sulla neve, fra le fronde degli alberi, nel volo del Nibbio e del Corvo Reale.
Sono sempre più entusiasta di trovarmi in questa compagnia, forse non dovrò più essere solo nelle mie salite sulle vette, meravigliose, del Pollino, della Sila, della Catena Costiera. Forse scoprirò finalmente l’Aspromonte. Un ventaglio di nuove possibilità mi si spalanca davanti. E’ la magia della montagna. Ma mi dico anche che qui, fra queste persone affabili, che ancora non conosco ma che voglio riincontrare, c’è un pezzo di Calabria e un pezzo di “provincia” che ama e rispetta le meraviglie di questo territorio. Sono ammirato, sono sollevato.
Come non esserlo, a questa quota? Le montagne ci mostrano il mondo come Dio l’ha voluto. Scendendo a valle ritroverò il mondo come l’hanno voluto gli uomini, cioè noi. Ma ora so che c’è il CAI e la possibilità, zaino in spalla, di condividere con altri, la gioia di una giornata come questa. E so anche che per quante devastazioni la natura debba ancora sopportare c’è qualcuno che non si arrende, che la ama e la protegge. È forse ora di unirci e dare man forte.
Nel frattempo mia moglie ed i miei amici hanno trovato, fra alcuni del gruppo di Rossano, chi li ha scortati verso il Piano. Mi attendo qualche rimbrotto ed anche io, mentre salivo, rimasticavo qualche malumore. Ma la montagna ha fatto miracoli anche per loro: sono tutti contenti e il mio amico fumatore accanito (3 pacchetti al giorno) se l’è cavata, in tutta la giornata, con 4 o 5 sigarette. Forse, per smettere, invece di ricoverarsi si iscriverà al CAI di Cosenza.
Vincenzo Continanza