Best seller, long-seller, libro di culto per più generazioni: lo si definisca come si vuole, resta il fatto che, fra i lettori, è diffusa e incancellabile la memoria di Siddharta, il personaggio di un fortunato libro di Hermann Hesse.
Chi è Siddharta? E’ il figlio di un Brahmino di alto rango, cresciuto nell’osservanza dei complicati rituali religiosi del padre e della sua casta, destinato come il padre ad occupare un posto di rilievo nella scala sociale e a risplendere per santità, compostezza, elevatezza di costumi.
E tuttavia egli ad un certo punto sente parlare dei Samana, un gruppo di cenciosi asceti vaganti, dediti a pratiche estreme di automortificazione, abituati a vivere nei boschi, mangiando e dormendo poco o niente, lontani dalla società, totalmente ed unicamente dediti alla ricerca della illuminazione.
E’ straordinaria la pagina in cui il giovane bramino comunica a suo padre di volersi unire a loro, con la fermezza di chi è pronto a morire piuttosto che recedere dal proposito concepito nell’intimo del suo cuore e della sua incrollabile volontà.
Siddharta sarà Samana, dunque, accompagnato dal fedele amico Govinda; imparerà a trattenere il respiro fino a fermarlo, a rallentare il battito del cuore, a digiunare per giorni e settimane, a riposare su letti spinosi. Ma la sua sete di ricerca lo porterà ancora oltre, a lasciare i Samana del bosco per incontrare il Buddha, la cui fama si va propagando a macchia d’olio ed ha raggiunto anche i due amici. E’ a questo punto della storia che la sua vicenda prende una piega inattesa. Lui, il Siddharta, il cercatore sempre inquieto ed insoddisfatto, non è in realtà alla ricerca di un altro maestro, sa già che anche il Buddha non potrebbe rivelargli ciò che egli cerca. Insieme a Govinda si unisce, tuttavia, alla schiera dei suoi seguaci, nella citta di Savathi, nel boschetto di Jetavana, e ne ascolta la predicazione: la dottrina del dolore, la via per superarla, i quattro punti fondamentali, l’ottuplice strada.
Ma è venuto il momento per Siddharta di abbandonare l’amico Govinda che sceglie di rifugiarsi presso il Buddha sublime e la sua dottrina. Sono queste le parole di congedo all’amico:
“Govinda, amico mio, ora tu hai fatto il passo, ora tu hai scelto la tua strada. Sempre, Govinda, tu sei stato mio amico, sempre tu mi hai seguito a distanza di un passo. Spesso avevo pensato: non farà mai, Govinda, un passo da solo, senza di me, non ad altri ubbidiente che alla sua anima? Ed ecco, ora tu sei diventato un uomo, e scegli per te la tua strada. Possa tu percorrerla fino alla fine, amico mio! Possa tu trovare la liberazione!”
Ma perché questo ulteriore passo in avanti del protagonista, nonostante egli veda nella serenità del Buddha i segni inconfondibili della pace e della illuminazione? Lo spiega lui stesso al Buddha, con queste parole:
“…non un minuto io ho dubitato che tu sei Buddha, che tu hai raggiunto la meta, la somma meta verso la quale si affaticano tante migliaia di Brahmini e di figli di Brahmini… Tu hai trovato la liberazione dalla morte. Essa è venuta a te attraverso la tua ricchezza, ti è venuta incontro sulla tua stessa strada, attraverso il tuo pensiero, la concentrazione, la conoscenza, la rivelazione. Non ti è venuta attraverso la dottrina! E – tale è il mio pensiero, o Sublime – nessuno perverrà mai alla liberazione attraverso una dottrina! A nessuno, o Venerabile, tu potrai mai, con parole, e attraverso una dottrina, comunicare ciò che avvenne in te, nell’ora della tua illuminazione!”.
La dottrina del Buddha dunque, pur contenendo preziosi insegnamenti , “non contiene il segreto di ciò che il Sublime stesso ha vissuto”.
Perciò il Siddharta non va in cerca di altre, migliori dottrine, ma continua la sua peregrinazione per raggiungere da solo la meta, o morire.
Egli ha perduto l’amico, ha lasciato il Buddha di cui ha potuto contemplare la santità, è solo, affidato alla sola scuola di cui, d’ora in poi, vorrà riconoscere l’autorità: la scuola del suo stesso Io più profondo, l’Atman o anima individuale. Questo solo egli vuole, non accumulare scienza e dottrina, ma svelare quel mistero che ha nome Siddharta.
E’ a questo punto che il mondo e la realtà intorno a lui gli appaiono in una luce nuova e inconsueta, con luminosa chiarezza. E’ il risveglio. Il mondo appare ai suoi occhi nella sua primitiva bellezza. Cadono i veli stesi sulla realtà dalle dottrine e dalle filosofie.
“L’azzurro era azzurro, il fiume era fiume…tale era appunto la natura e il senso del divino, d’essere qui giallo, là azzurro, là cielo, là bosco e qui Siddharta. Il senso e l’essenza delle cose NON erano in qualche cosa oltre e dietro di loro, ma nelle cose stesse, in tutto.”
L’originale conseguenza di questo suo risveglio è però un inaspettato percorso: dal mondo dell’ascesi e dello spirito Siddharta si volge al mondo degli uomini e dei sensi. Entra in una grande città, intravede la cortigiana Kamala, resta avvinto dalla sua bellezza. Su suggerimento di lei si reca dal ricco mercante Kamaswami dal quale apprenderà l’arte della mercatura e, con essa, acquisirà i mezzi per poter godere della bella Kamala e apprendere da lei i segreti dell’amore e della voluttà.
Egli percorre anche questa via, quella del mondo, del potere, della ricchezza, fino alle estreme sue conseguenze, fino a sperimentare l’avarizia e la paura, l’ubriachezza e la dissolutezza del gioco, fino alla morte dello spirito ed alla tentazione del suicidio. Egli sapeva già da bambino che i piaceri mondani e la ricchezza non sono un bene, ma ora lo ha vissuto e lo sa non solo con la sua mente, ma con gli occhi, lo stomaco, il cuore.
Giunto al fondo di questa esperienza è pronto per la trasformazione successiva.
Sarà barcaiolo, presso la capanna di Vasudeva, in ascolto della voce del fiume. Soffrirà il dolore del padre tradito nell’amore per suo figlio e ancora, in questa passione, si avvicinerà alla sorte degli uomini-bambini dai quali, per tanto tempo, aveva preteso orgogliosamente di tenersi distante. Incontrerà ancora Govinda, l’amico della sua giovinezza. A lui affiderà il testamento vivente della sua definitiva conquista: della serenità, della saggezza, di una santità che è indescrivibile ed incomunicabile, perché supera il mondo delle distinzioni, dei dualismi, dei conflitti in cui la mente ci imbriglia.
Chi è Siddharta, allora? Cosa ha da dirci, oggi? Egli incarna l’ideale della ricerca di assoluto, la ricerca di quell’io più autentico, nascosto dentro di noi e troppo spesso soffocato, persino dalle conoscenze e dallo zelo con cui perseguiamo gli scopi della nostra vita, anche i più nobili, per non parlare di quelli ignobili che, come roveti spinosi, costringono la nostra energia vitale in orizzonti asfittici e mortali.
Egli realizza con coraggio quest’ideale di ricerca, senza fermarsi mai, assumendo di volta in volta forme diverse e lasciandole morire per rinascere a forme nuove, seguendo il ritmo incessante della vita stessa e delle sue molteplici trasformazioni.
Nella sua vicenda si riflettono i colori esotici di un Oriente lontano nel tempo e nello spazio, luogo mitico della ricerca spirituale.
A cosa approda Siddharta nella sua ricerca? A un fiume, ad una capanna abitata dal barcaiolo Vasudeva, ad un silenzio che la voce del fiume riempie dell’eco del sacro OM, la sillaba simbolo di perfezione e compiutezza, in cui il Divino riassume la sua inesprimibile saggezza.
Con lui viaggiamo alla ricerca di quel “midollo della vita”, secondo le parole del grande Thoreau, di quella luce interiore che rischiamo di perdere di vista, nel condurre la nostra vita di uomini limitati dalle convenzioni e dalle abituali occupazioni.
Con lui sentiamo, in noi, maturare lentamente “il riconoscimento, la consapevolezza di ciò che realmente sia saggezza…nient’altro che una disposizione dell’anima, una capacità, un’arte segreta di pensare in qualunque istante, nel bel mezzo della vita, il pensiero dell’unità, sentire l’unità e per così dire respirarla.”
Rechiamoci, con il Siddharta, in riva al fiume del barcaiolo Vasudeva, nel fitto del bosco, lontano dai rumori superflui. Ascolteremo le mille voci del fiume, il suo canto inesauribile: OM, il Tutto, l’Unità.
Accanto a lui sostiamo mentre giunge l’ora in cui cessa di soffrire e sul suo volto fiorisce la serenità del sapere, “cui non contrasta più alcuna volontà; il sapere che conosce la perfezione, che è in accordo con il fiume del divenire, con la corrente della vita, un sapere che è pieno di compassione e di simpatia, docile al flusso degli eventi, aderente all’Unità”.
Vincenzo Continanza