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Fotografia e creatività

Henry Peach Robinson, Fading Away (1858)Un uomo girato di spalle guarda oltre la finestra, il volto preme contro la mano, quasi a trattenere le lacrime. Due donne, una anziana e l’altra più giovane, assistono impotenti alla morte della fanciulla. Fuori ci sono le nuvole, la luce entra nella stanza, conferendo alla scena equilibri di chiaroscuri: “Il momento del trapasso”, fotografia di Henry Robinson, 1858.

Una fotografia drammatica, inquietante, scattata alla fine della prima metà dell’Ottocento che, al contrario di quello che sembra, è un’abile composizione fotomontata, studiata nella mente del fotografo e realizzata, di tutto punto, nel suo studio. L’opera è il risultato dell’unione di cinque negativi, uno per ogni personaggio, più lo sfondo, montati con grande dovizia tecnica in camera oscura. A sua volta, ogni negativo è il frutto di studi approfonditi sui personaggi, come lo è lo schizzo per il  pittore o le prove per il regista teatrale.
Gli intenti di Robinson erano quelli di superare i limiti imposti alla creatività dell’autore dalla non modificabilità del reale e dalla tecnologia fotografica. La macchina fotografica doveva costituire uno strumento per produrre arte, così come i pennelli per il pittore, la differenza, semmai, andava individuata nella strepitosa somiglianza della realtà, che costituiva un punto di merito per il fotografo, visto anche l’ambiente culturale dell’epoca tutto incentrato a considerare l’arte come mimesi della natura.
In un periodo di grandi dibattiti tra chi considerava la fotografia come una sorella spuria della pittura e chi come il Ruskin ne lodava le straordinarie capacità di rappresentazione del reale, Robinson e, qualche anno prima di lui, Rejlander hanno provato con la messa in scena e il montaggio a superare i limiti che si ponevano al fotografo, ideando e creando, come i pittori, le proprie immagini. Non a caso, lo stesso Robinson si riteneva un pittorialista, inaugurando con la sua poetica un filone di arte fotografica che prolifererà per tutta la fine del XIX secolo, definito appunto “pittorialismo”.

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Julia Margaret Cameron, I waitAnche Julia Margaret Cameron, nella seconda metà del XIX secolo, con uno stile inconfondibile, rappresenta nelle sue foto soggetti con vesti esotiche, mitologiche, idilliache. Ottiene questi effetti attraverso l’uso di una raffinata tecnica di ripresa, che le consentiva di fare emergere le sue figure drammaticamente dall’oscurità, con pochissimi elementi in evidenza, sia di abbigliamento che di sfondo. Le immagini non sono a fuoco e i soggetti, figure malinconiche e santificate, lontane dalle loro esistenze meramente fisiche, si presentano come impalpabili, evanescenti, leggerissimi, ricreando un mondo spirituale immaginifico e suggestivo. Vivendo in un’epoca fortemente materialista, come poteva essere l’Inghilterra della seconda metà del XIX secolo, la Cameron utilizza lo strumento fotografico per cogliere l’interiorità dei suoi personaggi e proiettarli in uno scenario fittizio, lontano dalle “piccole inquietudini della vita”. Lei stessa scriverà, parlando della sua attività fotografica: “Quanto fa bene all’anima estraniarsi! Come lenisce le piccole inquietudini e le ferite della vita stare in contatto con la forza vitale del mondo… fondere il proprio ego nel tutto”.

Una brillantissima critica, come era Francesca Alinovi, già nel 1981 nel saggio fotografico “Fotografia: illusione o rivelazione?”, scritto insieme a Claudio Marra, aveva constatato che, accanto ad una fotografia diretta sul mondo di tipo “rivelativo”, si era sviluppato, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento fino ai giorni nostri, un filone di opere illusionistiche, che sfruttavano il mezzo fotografico come ricerca di un altrove, plasmando e modificando la realtà, per costruirne altre parallele ed immaginate.

Dita kubin, StephenInteressante è constatare che oggi si ritrovano tra gli artisti concezioni che risalgono agli studi di quei primi pionieri; la ricerca introspettiva, l’illusionismo fotografico ritornano ad essere in auge nel nostro XXI secolo, favoriti, anche, dall’avvento del digitale, che inevitabilmente, come ogni innovazione tecnologica, apre nuove indagini di ricerca creativa.
Tra gli esempi più singolari di questi ultimi mesi troviamo l’opera di Dita Kubin che, nel suo ultimo lavoro dal titolo Recollection, rappresenta la natura effimera della memoria e dei ricordi di persone che hanno catturato il suo interesse.
Le sue fotografie documentano la pace interiore, la calma, la rilassatezza, e i ritratti paiono galleggiare in un’atmosfera liquida, fumosa, in un luogo onirico, nascosto nella sua mente o nei suoi sogni. Realizzate digitalmente con Photoshop, le immagini sono di un’eleganza disarmante e capaci di evocare negli astanti sensazioni di fragilità, tenerezza, precarietà.

Senza l’impiego di software di fotoritocco, ma con la stessa forza di rappresentare l’essenza fugace dell’uomo è anche l’opera di Marco Picierro, Untitle_2007; ciò che noi vediamo in essa è solo una sagoma impalpabile, sfuggevole e passeggera, come un’ombra dai contorni misteriosi.
Il digitale, con la sua peculiarità di modificare le immagini, di realizzare dei fotomontaggi e di facilitare la messa in scena, non inaugura un nuovo specMarco Picierro, Untitle 2007ifico fotografico, inteso in senso molto lato, ma facilita la possibilità di modellare la realtà fotografata, consentendo all’autore di percorrere le vie della creatività massima, rappresentando illusioni, astrazioni o anche un altro reale più vicino all’idea o al simbolico.
Il nostro discorso funziona se consideriamo lo specifico fotografico non come l’affermazione essenzialistica delle proprietà vere del mezzo, ma, facendo ricorso alla geniale definizione fornita da Claudio Marra, come “specifico culturale”. Secondo Marra il medium fotografico, per certe sue caratteristiche, si addice ad un tipo di pratica “rivelativa”, che si rivolge alle cose per indirizzarle alla nostra attenzione, trovando nel mondo il suo territorio privilegiato di caccia. Tuttavia questo non significa che non possano trovare spazio e dignità altre forme di pratica, diverse dalla fotografia diretta sul mondo. In questo senso la fotografia può ammettere tanti tipi di specifici fotografici, anche divergenti tra loro, quanti sono quelli potenzialmente accettabili in un particolare momento da una determinata cultura. Restringere il campo dell’opera fotografica alla semplice selezione dalla realtà di un’immagine coerente e all’automatismo della macchina che con un clic la impressiona sulla pellicola o sul sensore, vuol dire negare il campo ad un filone della fotografia che si perde negli albori della sua comparsa e che, proprio con l’avvento del digitale e con i software di fotoritocco, torna prepotentemente a proporsi, rilanciando l’antica sfida di oltrepassare i limiti del dato reale di per sé immodificabile. Un limite, che non potrà mai essere oltrepassato completamente, ma che, di fatto, può aprire la strada a nuovi sentieri espressivi e di ricerca artistica.

Locandina VinòforumLa grafica pubblicitaria già da tempo sfrutta le enormi potenzialità del digitale nei suoi lavori. In questa che vi proponiamo, presentata per reclamizzare la manifestazione Vinòforum 2008, troviamo tre calici a forma di fiori e dei veli su uno sfondo grigio. Siamo in presenza di un mix di segni iconici, che funzionano come indici, ossia come tracce e rappresentazioni di elementi reali, ma che decontestualizzate assumono un forte contenuto simbolico.
È chiaro che con la grafica usciamo fuori da qualunque specifico fotografico; ciò che a noi interessa, però, è il metodo compositivo e la facilità permessa dalle tecnologie digitali che consente di miscelare più immagini per arrivare al lavoro compiuto. L’autore piega all’idea ogni elemento: i veli sono simboli di leggerezza, i calici a forma di fiori possono essere raccolti per poterne sorseggiare il vino contenuto, lo sfondo ha tonalità neutre e rilassanti. Tutto è composto per essere indicativo di una delle qualità più ricercate del vino, la leggerezza e la dolce ebbrezza. La configurazione sembra riproporre le regole compositive espresse da Kandinsky nella sua celebre opera Punti, linee e superficie, tali da conferire anche una certa acustica all’immagine; ecco perché guardandola viene voglia di partecipare con tutti i sensi all’atto del bere, con il gusto, il tatto, l’olfatto, la vista e, perché no, anche con l’udito, in una completa armonia di sensi.

Diego Pirozzolo

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La Sapienza Università di Roma - Foto di Diego Pirozzolo
Fondazione Roma Sapienza, “Arte in luce” X edizione

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