“Appoggiata contro una parete bianca, le labbra tremanti, gli occhi cupi come nuvole cariche di pioggia. Mi avvicinai, le sussurrai qualcosa e la baciai. Una lacrima le solcò la guancia e allora catturai quell’istante per sempre”. Il racconto di una fotografia, di un’emozione reciproca impressa sulla pellicola d’argento. Quando Edward Weston scrive queste righe su Tina Modottti, la loro relazione è ormai incrinata.
Le tensioni e le frustrazioni, che covavano tra i meandri di una storia apparentemente idilliaca, in quei giorni emergevano in tutta la loro forza e drammaticità. Un amore romantico, infiammato di desiderio e tenerezza, ma anche un’avventura paradossale tra due personalità diametralmente opposte, due artisti che prenderanno strade diverse nella storia della fotografia, lasciandosi di spalle in tutti i sensi.
Tina Modotti è italiana, Tinissima, come la chiamava affettuosamente la madre. Nata a Pracchiuso nel 1891 in provincia di Udine da una famiglia molto povera, emigrò in America nel 1913, quando aveva solo 17 anni. Di lei si possono dire e scrivere molte cose: donna bellissima, di una sensibilità straordinaria, dedicherà la sua vita alla difesa dei più deboli, combattendo le ingiustizie del mondo con ogni mezzo, soprattutto con la sua arte: la fotografia.
Strano il legame con Edward Weston. Se si pensa alla loro storia e di come il destino sa intrecciare vite e sensibilità diverse, anche solo per brevi periodi, per poi slegarle e condurle in luoghi distanti, non solo nella ricerca artistica, ma anche nel modo di condurre e spendere la vita, si rimane allibiti. Tina sarà ricordata come una delle personalità più socialmente impegnate nella storia dell’arte, mentre Weston come un esteta, un amante dell’art-pour-art. Eppure sono convinto che quei fili legati dal destino abbiano avuto un ruolo fondamentale nella personalità dei due artisti. Tina non sarebbe mai diventata Tina Modotti senza Edward Weston, non solo perché l’ex marito le insegnerà la tecnica fotografica, ma anche perché contribuirà fortemente a segnare la sua personalità. Anche Weston crescerà artisticamente grazie a Tina; d’altronde i due rimarranno sempre affettivamente legati. Dopo la fine della loro storia continueranno a scriversi lettere e a sostenersi l’un l’altra, come a dire che quel filo non fu mai definitivamente spezzato.
La formazione dell’artista è legata al Messico, dove si era stabilita con Weston nel 1923. Erano anni esaltanti quelli: Città del Messico viveva un periodo di grandi fermenti artistici e politici (il famoso rinascimento messicano), per dirla con Bob Dylan: “La sera c’era musica nei caffè e la rivoluzione nell’aria”. Tina gestiva la galleria fotografica del marito e, tra feste e incontri mondani, era venuta in contatto con i grandi intellettuali del tempo, come Diego Rivera e Frida Khalo, ma anche rivoluzionari come Antonio Mella, che sarebbe divenuto poi suo compagno e che purtroppo avrebbe visto morire in un attentato, mentre passeggiavano insieme nel 1928.
La vita di Tina sembra davvero un romanzo: da quel momento è costretta a scappare dal Messico perché sospettata di cospirazione. Vagherà per l’Europa, aiutando profughi ed esiliati politici. Il suo impegno è instancabile. D’indole proletaria milita nel Partito Comunista, si arruola nel Soccorso internazionale e, infine, nelle retrovie della resistenza antifascista spagnola combatte contro il franchismo sotto il falso nome di Maria.
Il lavoro di fotografa, iniziato nella gaiezza delle notti messicane e seguendo l’influenza di Weston, si concentra sulle forme della natura, sulla bellezza dei motivi che essa può offrire. Impara subito dal marito l’arte d’isolare gli elementi, realizzando splendidi scatti di fiori, ma anche di motivi geometrici disparati come in Telephone wireses del 1925. Se Edward Weston in quegli anni fotografa peperoni, lei risponde con delle rose bianche, Roses 1925, di una leggerezza e grazia che lasciano percepire già, da queste prime immagini tutta la sensibilità e la dolcezza dell’artista. Una purezza formale al femminile; sembra davvero l’altra metà del marito, anche artisticamente.
Sarà con l’impegno sociale, però, che il suo lavoro subirà una folgorante trasformazione, raggiungendo un’autonomia artistica ed espressiva che le consentirà di rompere radicalmente con l’esperienza passata.
Tutto il credo di Tina Modotti si può racchiudere in Campesinos del 1926. Vediamo una serie di uomini con in testa dei cappelli che riempiono l’immagine, come se passassero compatti attraverso la fotografia. Gli uomini sono uniti, hanno tutti i medesimi cappelli. Non vi è qui una figura di rottura come nell’immagine White Angel Bread Line di Dorothea Lange dove il soggetto col cappello sgualcito e ripreso di spalle sembra lasciarsi andare a se stesso. In Campesinos tutti marciano in un’unica direzione. Compatti, energici, danno l’idea di un’unità politica, di una forza in movimento che l’opera sintetizza nella sua vitalità e nella sua ottimistica sensazione che gli ostacoli del mondo non possono arrestare il tutto che avanza. Tina fotografa la speranza che uniti si può combattere povertà e miseria, ingiustizia e privazione.
Le opere di questa nuova fase creativa sono particolarmente evocative, composte di pochi elementi, come un jazz latino che ripete sempre le stesse note in una melodia suadente carica di nostalgia ed insieme di richiami simbolici all’azione per riscattarsi e vincere la realtà: alcuni esempi di quanto detto li troviamo in Hands of the puppeteer 1929 o nello stupendo ritratto Mother and child, Tehuantepec del 1929.
Un’artista rimasta dopo la sua morte a lungo nell’oblio soprattutto nel nostro Paese. Siamo grati al Comitato Tina Modotti di Udine per il lavoro di promozione dell’opera dell’artista anche in Italia. La Modotti, sebbene abbia vissuto all’estero, rimane una delle più grandi sensibilità artistiche italiane del Novecento.
Non resta che chiudere in suo omaggio con i versi a lei dedicati da Pablo Neruda dopo la sua morte:
Tina Modotti, sorella, tu non dormi, no, non dormi:
forse il tuo cuore sente crescere la rosa
di ieri, l′ultima rosa di ieri, la nuova rosa.
Riposa dolcemente, sorella.
Diego Pirozzolo