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Cammino di Santiago di Compostela – Quinta tappa – Verso Ferreiros

Più che le mesones, la pioggia e i bar chiusi lungo la strada, a caratterizzare questa giornata, come tutte le altre, sono gli incontri.
Dopo un ponte, mentre mi soffermo su alcune indicazioni all’incrocio con un sentiero, spunta, da un piano inferiore a quello della statale,  una ragazza dai capelli chiari coperta dal poncho di plastica, lo stesso che io continuo a tenere nascosto in una tasca dello zaino, confidando in quella mia giacca che mi pare impermeabile e che non lo è abbastanza. Contrariamente alla mia prima impressione parla spagnolo e non è tedesca, né scandinava, né olandese, ma di Barcellona. Comunque un’altra nazione, molto diversa da questa in cui ci incontriamo. Si affianca a me e , mentre parliamo, sull’altro bordo della strada compaiono le sue due amiche, enormi sagome di plastica colorata sotto le quali marciano insieme corpi e zaino, con un involontario effetto di gigantismo, anche un po’ comico. Io non devo essere da meno con questo mio carretto da massaia sul bordo di una statale.

Lo squillo del mio telefonino ci interrompe e la invito a non attardarsi e a proseguire.
Ormai in vista di Sarria, un’altra località importante del cammino, un sentiero a sinistra si apre su un bosco di eucalyptus. Sulla ciminiera di una casa vedo tornare la cicogna con un ramo nel becco a rinforzo del suo grosso nido. I nidi di cicogne sono altri landmarks divenuti familiari lungo questa marcia.
Una macchina si ferma e mi chiede, a colpo sicuro, se quella alle mia spalle è la strada per Samos. Non esito a rispondere, con una sicurezza che non avrei se mi trovassi per la strada a casa mia.
Ne ho battuto ogni palmo con i miei stessi piedi, non ho dubbi che sia quella, proprio quella che porta a Samos.

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Dal segnale d’ingresso al paese alle prime case, altri faticosi, interminabili tratti di strada, mentre ai lati si infittiscono le costruzioni fino a creare il continuum che caratterizza le città.

L’occhio passa in rassegna l’ambiente di un bar circondato da vetri. Sugli sgabelli altri pellegrini e a terra zaini e bastoni. C’è poi una panaderia dalla quale fuoriescono profumi allettanti e sotto il cui porticato mi fermo per consultare la guida e intanto decidere dove entrare. Davanti a me le tre ragazze incontrate poco più di un’ora prima.

Vamos a tomar un cafè. E sventolano le mani verso di me. Ci ritroviamo dentro un bar poco più in là, dove il mio café è sempre rigorosamente con leche, molta leche e un grosso croissant d’accompagnamento da cui trarre le calorie sufficienti per i chilometri ancora da percorrere.

Cristina, Ana e Sonia, di Barcellona, due di loro hanno anche frequentato un corso di italiano e masticano qualche parola della mia lingua. La sosta è di quelle che ci si concede di gusto, in corrispondenza con una delle tappe segnate dalle guide. Subito dopo io provo a trovare, in questa piccola città che è pur sempre una metropoli rispetto ai villaggi di poche case che si incrociano normalmente, un nuovo carretto che sostituisca il vecchio.

Il tentativo fallisce e quel po’ di traffico che faccio da una via all’altra, da un negozio all’altro, passando fra semafori e code d’auto, marciapiedi pieni di gente e zebre viscide di pioggia, mi disturba oltremodo, facendomi subito desiderare di allontanarmi dal centro e uscire dalla città.
Il carretto ormai mi accompagnerà fino a Santiago o resterà ai bordi di un crocicchio. Lo deciderà la sorte, la Provvidenza o il caso.

Uscendo dall’abitato un ponte supera la carreggiata di una autovia e le tre ragazze sono lì a decidere di seguire anche loro la statale invece del sentiero, nella speranza di accorciare un po’ e di evitare il fango.
In realtà, la statale è un percorso più lungo, ma forse in questo tratto le distanze si equivalgono.

Affrontiamo una salita in fila indiana, di buon passo e in silenzio.  Ci lasciamo a sinistra Barbadelo che avremmo attraversato percorrendo il sentiero e, mentre la pioggia batte sempre più forte, io mi fermo a fotografare una lapide dedicata ad un pellegrino di Strasburgo morto qui. “Hic peregrinationem suam finivit”.

Dopo questa sosta sono di nuovo solo e l’ampio fondo della statale battuta dalla pioggia mi fa sorgere un improvviso sospetto. Fermo una macchina dalla quale una gentile signora mi offre le indicazioni che mi servono per ritornare sul cammino, scelta obbligata se non voglio camminare per altri 15 km, fino a Portomarin. Da Samos a Sarria ho percorso 15 km. Poi mi sono aggirato per un po’ all’interno della città e, da allora, mi sarò fatto almeno altri tre o quattro chilometri, senza contare i giri per negozi. È fuori discussione che provi ad arrivare a Portomarin. Con o senza il carretto, devo ritrovare il sentiero, lungo il quale la guida segnala un rifugio a Ferreiros, molto prima di Portomarin.

La signora della macchina aveva detto che l’incrocio col sentiero era vicino, ma con quasi 20 km nelle gambe tutto ciò che gli automobilisti indicano come vicino è a distanza spaziale per il pellegrino di mezza età, ancora di più se si accorge di trovarsi fuori strada, se la pioggia non dà tregua e lui insiste a non rifornirsi di cibo per il pranzo, per non dover infilare dell’altro nello zaino stracolmo.

Una fermata d’autobus mi promette qualche minuto di riparo e di riposo, in attesa di raggiungere l’incrocio tanto atteso, ed è lì che ritrovo, e questa volta immortalo, Ana, Simona e Cristina.
Oggi sono loro i miei angeli del cammino e una porzione delle loro empanadas e dei loro biscotti finisce dritta nel mio stomaco, passando velocemente fra i denti. Anche loro erano un po’ perse e gli passo le informazioni appena raccolte dalla generosa passante. Quando riprendiamo la strada il mio ginocchio destro è un po’ rigido, dopo la sosta, e, fermandomi ancora per tirar fuori i guanti dallo zaino, le perdo ancora, proprio prima della deviazione che mi riporta sul sentiero tracciato.

È difficile da spiegare, ma credetemi: sono gli ultimi 4 o 5 km la vera odissea di ogni tappa e questa non fa eccezione, anzi conferma la regola.

Dopo la deviazione, l’asfalto va degradando in un misto di sabbia e buche e pietra e pozze d’acqua, fino a che la freccia gialla sulla pietra contrassegnata dalla conchiglia non punta nettamente verso un sentiero stretto fra i muretti in pietra. La prima indicazione di un passante che cammina sotto un ombrello è che Ferreiros sarebbe a tre chilometri di distanza. Io ne avevo calcolati, dalla fermata dell’autobus con la pensilina, più o meno otto.

Procedo rincuorato, sempre attento a non perdermi le ruote per strada, costretto ogni tanto a fare acrobazie dove la pista di terra si trasforma in acciottolato di pietroni, piccoli e grandi, sconnessi o disposti secondo bruschi dislivelli. Il paesaggio è meraviglioso, sono in piena campagna e ancora mi pento dei tratti percorsi su asfalto, lontano da tanta serena bellezza. Ma procedere col mio carretto, fra il fango e le pietre, mi fa molto desiderare l’arrivo.
Cammino ormai da più di un altra mezz’ora quando incontro un pastore.
Quanto manca a Ferreiros?
3 o 4 chilometri” è la risposta che ritorna lenta, come fosse l’eco della voce di un altro.
Capisco che in queste contrade il tempo e lo spazio hanno una misura diversa da quella delle statali o saranno le mie gambe che ormai desiderano solo fermarsi. Il mio calcolo iniziale era quello più corretto. Almeno 7 o 8 chilometri dalla deviazione.

Prima di arrivare una specie di miraggio. Una signora che stende i panni in una fattoria.

C’è posto?”  Grido da lontano. Ma è solo una casa privata. La signora vuole vendermi una conchiglia. Di fronte al mio sbalordimento cambia lingua. “Shell, shell!”, sì, quella delle vecchie pompe di benzina. No, niente shell, voglio un letto e una doccia, un posto in un “albergue”.

Una prima pietra mostra il km 100, poi una seconda, quella che avevo visto nelle guide, con un paio di scarponi di sopra e troppe scritte che la deturpano.

Mi fermo a scattare foto. Poi procedo verso Ferreiros, ci entro senza la soddisfazione di trovare una scritta che la identifichi, né un solo abitante o una indicazione per l’ostello.

Nel frattempo ho dovuto caricarmi lo zaino in spalle per attraversare una salita dove il sentiero si è trasformato in un ruscello con una serie di lastroni piantati in mezzo. Dai lastroni passo al fango ed è tutto un arrancare a fatica, passo dopo passo, fino all’arrivo.

Sono a Ferreiros ma senza saperlo con certezza e senza nessuno a cui chiedere . L’unico rumore è quello delle mucche e di qualche gallina. Butto giù lo zaino per risistemarlo sul carrello e dietro un gruppo di pellegrini ricompare Cristina. Sanno che l’albergue è lì, bisogna continuare. “Vai –  le dico – e prendi un posto anche per me”. Ma sono solo pochi passi  e una scritta in giallo sulla stradina punta verso sinistra in direzione del posto dove trascorrerò la notte, la mia terza notte sul cammino.

Vincenzo Continanza

Segui il viaggio:

Prima tappa: In Galizia sul Cammino per Santiago di Compostela

Seconda tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Da O Cebreiro a Fonfria

Terza tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Verso il monastero di Samos

Quarta tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Il tempo del pellegrino

Quinta tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Verso Ferreiros

Sesta tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Arrivo a Hospital de la Cruz

Settima tappa: Sul Cammino di Santiago di Compostela tra ricordi e sogni

Ottava tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Compagni di viaggio

Nona tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Sosta a Casanova

Decima tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Arrivo a Ribadiso

Undicesima tappa: Cammino di Santiago di Compostela – 40 chilometri alla meta

Dodicesima tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Sosta a Santa Irene

Tredicesima tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Verso Monte do Gozo

Copertina libro
"Il bambino che rientra dalle vacanze. Infanzia e felicità" - Il nuovo libro di Raffaele Mantegazza
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Fondazione Roma Sapienza, “Arte in luce” X edizione

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