L’altro vantaggio dell’essere in pochi e in una località minore, di quelle che le guide indicano come luoghi di passaggio, è che si fa in fretta a darsi una voce, per ritrovarsi nell’unico posto nel quale mettere qualcosa sotto i denti, il ristorante-bar che si trova a meno di cento metri dall’ostello.
Le tedesche sono già al tavolo con i loro mariti, che le seguono in macchina e non hanno alcuna intenzione di unirsi alle loro scarpinate. Scambiamo, fra le risate, un paio di commenti riguardo a questo. Noi “latini”, ovvero io e gli altri spagnoli, prendiamo posto in un tavolo affianco. Ci sono i catalani Gloria e Lazaro e poi il gruppetto di andalusi, fra cui un giovane di diciassette anni. Il loro inconfondibile accento, le consonanti intervocaliche che saltano o si schiacciano le une sulle altre, mi riportano ai miei 19 anni, a Jaen e Granada, a una storia di amore per questo paese che era iniziata per tempo e non ha avuto gli sviluppi che avrebbe potuto avere. Lungo le strade e i sentieri ho avuto modo di mettere ordine nella soffitta dei sogni e fra tutti i cimeli impolverati ho trovato anche questo, in una vecchia scatola di latta dai colori sbiaditi. Gli occhi sinceri e il volto pulito di quel diciassettene mi fanno pensare. Riuscirà lui, che ha scoperto così presto questo sentiero, a seguire il cammino dei suoi sogni ? O lascerà che essi vadano a riempire una soffitta e diventino un peso da trasportare ad ogni trasloco, nella ostinata speranza che un genio della lampada possa un giorno farli rivivere?
Nella mia macchina fotografica porto alcune foto della mia bambina, scattate prima della partenza. Le guardo, fra un piatto e l’altro, e le mostro ai miei compagni di tavola. Se fino a ieri Santiago era una meta in bilico sulla via per Finisterre e quest’ultima uno sguardo sul mare infinito delle rotte mai percorse, oggi Santiago è anche il desiderio di riabbracciare le donne che mi attendono a casa, la mia dolce Desi e questo piccolo, tenero fiore comparso da sette mesi, come per un incanto di tarda estate.
La cena deve ormai fare i conti con un termine di paragone difficilmente eguagliabile, che è quello della taverna di Ferreiros. Ma la compagnia è allegra, giovane, cordiale e chiudiamo la serata con un “chupito” (chupar significa succhiare, quindi, alla lettera, succhiottino), modo curioso che hanno qui per indicare il liquorino finale, servito in un bicchierino basso, ma più largo di quelli che usiamo noi.
Credo sia stata una delle notti in cui ho dormito meglio, evidentemente per l’ampio spazio a disposizione, la migliore qualità dell’aria, il maggior silenzio.
QUINTO GIORNO
Sono forse l’ultimo a lasciare il rifugio, nella luce ancora incerta delle otto, sotto questo cielo che ama far tardi più di quanto non ami svegliarsi di buon’ora. All’interno le luci sono ancora accese, la portineria è vuota. Si chiama “albergue”, ma non è un albergo. Più tardi arriveranno gli addetti alla pulizia, le porte a vetri saranno chiuse e riapriranno solo all’una. La mattina non è tempo, per i pellegrini, di sostare nei rifugi, a meno che non siano ammalati e possano certificarlo. In Galizia il loro costo, di tutto favore, è di tre euro. La rete dei rifugi è allestita dalla giunta galiziana, un esempio di civiltà che non ha eguali nel nostro paese, pur traboccante di itinerari di cultura e spiritualità. Come mi dice l’anziana signora francese che incontrerò in seguito, “c’est donné”, è un regalo della vecchia Europa, in questo suo lembo estremo.
Mi volto a fotografare ancora questo mio rifugio di una notte, come faccio ogni mattina, per esprimere la mia gratitudine a quel tetto che mi ha offerto riparo e restituito alla strada col vigore di un mattino nuovo. Fa freddo e tiro su il cappuccio della felpa, in attesa che i passi mi riscaldino. Non ho fatto colazione e potrei comporre una canzone sul tema “breakfast is in my mind”, mentre sto per arrivare a Ventas de Naron, le solite quattro case e una cappellina, dove scorgo le luci di un bar ancora accese. Ne esce l’altissimo olandese che avevo incontrato nei giorni scorsi sempre in compagnia di un composito gruppo di persone, fra cui il galiziano del formaggio. Gli chiedo degli altri e mi risponde, in un inglese privo d’accento, di averli dovuti lasciare dietro. Il suo aereo parte da Santiago il sabato e lui ha dovuto allungare il passo. Cosa che non deve essergli costata poi tanto, vista la lunghezza delle sue gambe da vichingo. Guardo la cappellina dalla porta di legno incisa con i simboli della conchiglia, del calice e della croce. Vedo per la prima volta l’anziana francese che ritorna sui suoi passi (Oh! Il pleut…) e si attrezza col suo “chubasquero” per ripararsi dalla pioggia. Prendo la salita che si inoltra nel bosco di conifere continuando a seguire sulle pietre miliari il count down dei chilometri che mancano, che si ripropone ora ogni 500 metri, insieme al nome di località come quello di Serra de Liconde, dove non incontro altro che alberi e silenzio. Nell’aria resta sospesa un po’ di nebbia che sfoca la vista degli alberi più lontani. La stradina d’asfalto corre parallela all’andadeiro, una pista di terra umida e a tratti fangosa. Passo per Previsa, che finalmente mi ricorda il nome della cittadina dove trascorsi una pasqua in Grecia, più di venti anni fa, a Prevesa, in compagnia di quel mattacchione di Nicolas, renitente alla leva e poi sposato in Italia, partito per le nebbie nostrane del Veneto e di cui non so più nulla da allora. Tutto torna, tutto si ritrova, fra le pietre ai bordi della strada e le insegne all’ingresso dei paesi.
Poco dopo incrocio il cruceiro di Lameiro, uno dei più antichi e importanti del cammino, che ne è tutto disseminato. Il cruceiro è una croce in pietra sulla sommità di una colonna. E questo ha la particolarità di raffigurare una madonna con in braccio il bambino, mentre alla base vi sono i simboli della Passione, il martello, i chiodi, le spine. È circondato di oggetti che sono una via di mezzo fra i vecchi ex-voto e i nuovi simboli della new age, a metà strada fra magia, estetismo, superstizione, moda e decorazione. Lì vicino, una quercia secolare.
Passo poi per Ligonde, dove c’è l’antico Hospital de Peregrinos restaurato, ma chiuso, come è chiuso anche l’albergue poco più in là.
Fra le case una mucca si aggira, vagamente perplessa al mio passaggio, e i carretti di legno hanno ruote disegnate come nei cartoni di Asterix. La discesa con la quale esco dal paese guarda già verso un’altra frazione, quella di Eirexe, ma prima di raggiungerla, l’insegna di casa Mariluz (Mare e luce) mi invita a fermarmi per quella colazione rimandata fin’ora, solo per poterla gustare meglio, pensando ai chilometri già lasciati alle mie spalle.
Il locale è deserto e un po’ freddo, la porta aperta, i tavoli vuoti. Al banco arriva una giovane ragazza, seria e svelta. Mi serve il cappuccino e riprende le sue faccende. La casa è grande e non vedo nessuno, a parte la sorella, ancor più giovane di lei. I suoi saranno, forse, in città a far provviste o commissioni. Ho l’impressione che i ragazzi e le ragazze di queste campagne abbiano ancora qualcosa che i nostri ragazzi, quelli che incontro a scuola, hanno perduto da tempo. Una solidità, una maturità, una semplicità che è frutto della vicinanza dei genitori, da un lato, e dall’abitudine alla cura delle cose, alla responsabilità, dall’altro. Senza contare l’assenza di tutti quegli stimoli che oggi offre la città, stimoli che vanno in primo luogo verso il consumo di cose inutili e che rendono la nostra gioventù vuota e superficiale.
Tutto questo mi dico mentre gusto il cappuccino con le immancabili magdalenas, leggo e rileggo la paginetta della guida con il percorso odierno, faccio ipotesi sui tempi di percorrenza e sulla possibile scelta del rifugio per la notte. Mi hanno parlato del rifugio di Casanova-Mato, un altro posto dove mi aspetto di trovare poca gente e molto posto, ai soliti tre euro.
Quando esco da casa Mariluz e mi volto per la foto, una delle ragazze è dietro la finestra della cucina. Si chiederà da dove venisse o dove vada il viaggiatore solitario? Forse pensa, piuttosto, all’appuntamento col ragazzo, o alle amiche con cui uscire nel pomeriggio. Ma nella mia vanità, io fantastico di aver eccitato la loro fantasia, quando è solo la mia che il cappuccino ha ricaricato a colpi di caffeina.
Proseguo per saliscendi continui fino a incontrare un secondo albergue di Ligonde, questo aperto, dove sostano Gloria e Lazaro. Passo per As Cruces dove è segnalato un complesso megalitico e vengo raggiunto dalla coppia. Chiedo una foto con Gloria per far ingelosire mia moglie, poi mi attardo a Portos, dove fotografo un uccellino sul piatto arrugginito di una vecchia luce di paese, sporgente da una casa abbandonata, vicino a una finestrella mezza rotta, di quelle piccole e di colore verde, dai cardini infissi nella pietra, che sembrano quelle delle case degli Hobbit di Tolkien. L’uccellino resta lì impettito, per niente turbato dalla mia presenza. I cani abbaiano, ma non vedo comparire anima viva, tranne quella della Guardia Civil che passa con la sua macchina grigia e guarda in tralice il mio zaino piantato in mezzo alla strada.
A Lestedo, mentre fotografo la chiesa con annesso cimitero, tre ragazze incontrate il giorno prima mi riconoscono e mi salutano. Sono in compagnia di due ragazzi che si sono associati a loro.
Il silenzio di queste contrade è rotto, d’improvviso, dal clamore di un clacson che propaga un frastuono metallico e prolungato. Penso a un incidente o a qualche pellegrino che intralcia la strada o a qualche automobilista insofferente, e alla fine scopro che è la consegna delle bombole a gas. Il camioncino segnala così il suo passaggio e dalle case sbucano bombole arancioni vuote che andranno sostituite con quelle ripiene. Poco male, passato il camioncino il silenzio torna ad avvolgerci. Il km 70 lascia spazio al 69,5 di Valos, al 69 di Mamolton e Mamurria, un nome dal sapore meridionale e camorresco, ai 68,5 di Brea, ai 68 di Ave Nostre Lametas.
Nel Meson di Brea incontro per l’ultima volta Gloria e Lazaro, poi anche di loro più nulla, se non questi ricordi e queste righe.
Vincenzo Continanza
Segui il viaggio:
Prima tappa: In Galizia sul Cammino per Santiago di Compostela
Seconda tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Da O Cebreiro a Fonfria
Terza tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Verso il monastero di Samos
Quarta tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Il tempo del pellegrino
Quinta tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Verso Ferreiros
Sesta tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Arrivo a Hospital de la Cruz
Settima tappa: Sul Cammino di Santiago di Compostela tra ricordi e sogni
Ottava tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Compagni di viaggio
Nona tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Sosta a Casanova
Decima tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Arrivo a Ribadiso
Undicesima tappa: Cammino di Santiago di Compostela – 40 chilometri alla meta
Dodicesima tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Sosta a Santa Irene
Tredicesima tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Verso Monte do Gozo