di Vincenzo Continanza
Il giorno si presenta con i riflessi rossi fra le nuvole striate, in una luce sospesa fra il tramonto di ieri e l’alba di oggi. Parto da Casanova all’asciutto verso le otto. Le luci elettriche sono ancora accese nel rifugio, che mi volto a salutare con i miei primi scatti. Una salita mi porta nel boschetto di pini ed eucaliptus. I campi verdi si aprono in vasti quadrati, fra il folto di un bosco e il bruno della terra arata. La nebbia è sospesa fra gli alberi, gli uccelli cantano ed io cammino leggero e di buon umore nella magia di un nuovo mattino.
Includendo quello appena iniziato, ho davanti a me tre giorni di cammino per il Monte do Gozo, il monte della gioia. Di lì a Santiago sarà solo una passeggiata di 5 chilometri che riserverò alla Domenica di Pasqua. Nella tranquillità e nella solitudine di quest’ora, ripenso all’agitazione della partenza, una settimana fa. Alla borsa dimenticata in macchina che mia moglie riesce a farmi avere comparendo provvidenziale sul marciapiede della stazione, quando il treno stava ormai per partire, e alle lunghe ore di attesa, fra treno, aereo e pernottamenti, precedenti il risveglio a Pedrafita e i miei primi passi nel buio e nella pioggia.
Il più è fatto, è tempo di iniziare a pregustare l’arrivo, non senza vigilare su gambe e carretto che, fino alla fine, potrebbero giocarmi qualche scherzo. Mai abbassare la guardia.
Anche il sessantesimo chilometro è passato, il conteggio continua con 59,5 e dopo poco c’è l’attraversamento dell’ultimo confine di provincia. Entro nella provincia di A Coruna, o La Coruna, secondo l’ortografia spagnola.
La prima sosta, dopo un tratto un po’ arduo per la mia due ruote, è per fare colazione. Il desayuno è l’equivalente del pieno per il serbatoio di una macchina, costa meno e non inquina. La signora che mi prepara il cappuccino è gentile e il sello (timbro che attesta il passaggio da una determinata località, da apporre sulla propria credencial) del suo bar, a Couto, è di un bel rosso fiammeggiante. I tavoli sono all’aperto e quel venticello leggero si infila nella giacca, gela il sudore e mi costringe a trovare un angolo più riparato sotto il tendone. Tanta attenzione a questi particolari può sembrare assai futile, ma sono questi i momenti di sosta da cui trarre le energie per proseguire nelle ore successive. E sono anche l’occasione per scambiare qualche parola, informarsi sulle condizioni del sentiero o sulle previsioni del tempo. Ritrovo Francesco di Arezzo e il suo amico catalano.
La signora del bar mi convince a non deviare dal sentiero che mi porterà ad attraversare dei piccoli paesini fuori del tempo e un tratto di via romana con un ponte anch’esso d’epoca romana. Il primo è il paesino di Leboreiro, con il suo cruceiro, gli horrios (granai galiziani rialzati dal terreno; servono a proteggere i grani di mais dall’umido e dalla pioggia), la chiesetta romanica, i palomeiros (piccole costruzioni, in pietra o paglia, per ospitare colombi), una croce gialla fatta tutta di conchiglie, le poche case abitate, le molte abbandonate da tempo. All’uscita, affiora la strada romana e il ponticello che passa sopra un piccolo corso d’acqua. Pochi metri e siamo già a Disicabo e di qui sbuchiamo in un parco segnalato come Bosque del Peregrino, dove mi accorgo di essere alla periferia di Melide, l’ultimo centro di dimensioni urbane che resta da attraversare, prima di Santiago. Ma per raggiungerlo passo ancora da Furelos percorrendo un ponte medievale a quattro arcate sul fiume omonimo, fotografando l’ennesima chiesa e la sua entrata laterale, di cui mi colpisce la scalinata, mentre mi avvolge la musica, anch’essa di sapore medievale, diffusa dagli altoparlanti di un bar, allestito come una antica taverna. Un sello al bar e un breve saluto a un pellegrino che ho già incrociato prima e vado decisamente verso Melide. A pochi passi dall’ingresso in città, campeggia in bianco una scritta su di un muro: “a crise capitalista que a paguen os ricos” una risposta ineccepibile quanto improbabile all’attuale stato delle nostre economie.
Melide, 51 km a Santiago. Mentre fotografo il cippo di pietra, un ragazzino che viaggia insieme al padre mi offre di farmi lui una foto. Lo invito a farsi riprendere insieme a me e mi auguro che conservi a lungo questo spirito collaborativo nei confronti degli sconosciuti passanti.
Cerco subito una cabina telefonica, che potrebbe essere l’ultima, almeno fino a domani sera, e ne trovo quattro. Le provo tutte, ma non risponde nessuno. A casa la bimba dorme e le comunicazioni col mondo esterno sono interrotte. Io sono convinto, invece, che siano le cabine a non funzionare. Devo pur trovare qualcosa che non funzioni, a costo di inventarmelo.
Nel primo pub che vedo, il cuoco sta sistemando in bella mostra i pulpos, piatto tipico di tutta la Galizia, che assegna proprio a Melide il primato delle migliori pulperias. Entro per chiedere se c’è un telefono e mi vengono incontro due perfetti ubriachi, così precisi con il loro sillabare strascicato, le movenze incerte e i passi barcollanti, da farmi chiedere se non siano due attori pagati per fare scena. E invece sono proprio autentici, due perfetti ubriaconi, già fradici alle 11 del mattino, col cervello imbevuto d’alcol come una spugna. Ci scambiamo un paio di battute. Da dove vieni, come ti chiami e dove vai. Poi mi sottraggo alle loro effusioni, fra gli sguardi mezzo allibiti, mezzo schifati degli altri avventori. Un gruppo di colleghi pellegrini, nel vedermi tener testa con allegria ai due strafatti beoni, se la ridono della grossa. Io riprendo la strada per il mio inutile giro fra le cabine della piazza. Poi proseguo, seguendo le frecce, in direzione del sentiero. In una piazzetta mi fermo sotto un portico, riprende a piovere e vedo un bar apparentemente chiuso. Provo a spingere la vecchia porta pesante e scopro un locale elegante e comodo. È semivuoto e frequentato solo da gente del posto. Una gentilissima barista mi serve il mio “solito” café con leche; è ancora troppo presto per impigrirmi con il Pulpo, il pranzo non fa parte della mia routine di pellegrino, ma la colazione di qualche ora fa andava integrata e corretta, almeno con un caffè. Prima di abbandonare la città, sulla mia sinistra, in posizione soprelevata, una chiesa a pianta rettangolare, molto ben restaurata, con annesso cimitero e un comodo spazio intorno, corredato di panchine di ferro e di una fontanella. Sporgendosi sulla balaustrata si gode una vista sulla città e sul campanile di un’altra chiesa non molto distante. Varrebbe la pena visitarle, ma per le soste da turista vi saranno altre occasioni. Ora bisogna concentrarsi sul completamento di questa missione. Non posso fare a meno di notare l’estremo decoro con cui in Galizia sono state restaurate le chiese, utilizzando con intelligenza i fondi europei e offrendo a turisti e pellegrini la possibilità di respirare, fra terra, pietra e cielo, l’atmosfera e la spiritualità di secoli lontani.
Sto ormai allontanandomi da Melide per un tratto di sentiero in ripida discesa, sconnesso e fangoso. Appena incrocio la strada, dopo aver chiesto lumi a un automobilista, scelgo di tenermi sull’asfalto, seguendo il tracciato della N547.
Noto, ai bordi delle recinzioni degli ampi spazi aperti che circondano le case, delle cassette postali poste su di un palo, fatte a forma di horrios, un incrocio curioso fra l’America di Paperino e questa regione così remota e i suoi simboli così peculiari. La temperatura si è come abbassata di colpo, quella specie di autunno piovoso si è trasformato in pieno inverno e nel fosco di una luce fioca sono sorpreso da una violenta grandinata. Decido di stringere i denti, resistere ed avanzare, componente unico del mio reggimento di fanteria e al tempo stesso comandante del battaglione, in lotta con gli elementi per la conquista del chilometro 40.
Quando trovo una fila di alberi d’alto fusto dove cercare riparo il peggio è passato. La pioggia continua ed io utilizzo una sosta d’autobus coperta per mettere in bocca un po’ del pane rimasto dalla sera precedente e convenientemente sistemato in una tasca per momenti come questo.
Mentre la pioggia continua a scrosciare, arrivo in corrispondenza di una chiesa la cui entrata laterale è aperta e segnalata: sello/stamps. Entro per apporre il timbro, poi fotografo l’interno della chiesa, il retablo (grande tavola lignea dorata, con edicole occupate da Santi, Madonne, Statue di Gesù, che si trova sulla parete alle spalle dell’altare; di epoca barocca, decora gran parte delle chiese spagnole) con le sue statue, fra cui non manca Santiago col bastone. Esco dall’altra parte della chiesa, come ho visto fare da chi mi ha preceduto, forse un modo per indicare che il pellegrino non torna sui suoi passi, ma avanza sempre in direzione della meta, con la benedizione di San Giacomo apostolo e di tutti i santi e le sante del cielo.
Prima di seguire la freccia punto a un mesòn (bar-ristorante, dove si può, a volte, trovare anche posto per dormire; di solito è a conduzione familiare) al lato della strada, già pieno di pellegrini. Sono in gruppo, alcuni mi pare siano addirittura familiari. Non posso non notare come i gruppi vivano all’interno dei confini invisibili della loro stessa cerchia; questo l’ho già incontrato, ma non incrocio il loro sguardo mentre entro nel mesòn né quando escono senza salutare. Non è così per le due signore che entrano dopo poco e per la gran maggioranza dei pellegrini che incontro in questa stagione ancora poco turistica. Sono contento di non avere intrapreso il cammino al seguito di un gruppo, non avrei mai scoperto la familiarità improvvisa che si crea fra pellegrini, anche se sono perfetti sconosciuti e vengono da molto lontano, e questa dimensione di non estraneità con l’altro, chiunque esso sia: uomo, donna, ragazzo, religioso, agnostico, ateo, ciclista, sportivo, corpulento o emaciato, europeo o asiatico, americano, australiano, ebreo, buddhista, cristiano di qualunque confessione.
Mariano è il proprietario del locale. Grande barbone fluente e corporatura robusta; uno che si vorrebbe avere vicino quando ci si imbatte per strada con qualche malintenzionato. Appena chiedo alla moglie di avere una foto con lui, accorre dalla cucina e sorride di gusto, appoggiando il suo braccio intorno alle mie spalle. Dietro il bancone campeggiano 5 o 6 compostelas (certificato attestante il pellegrinaggio effettuato fino alla tomba dell’apostolo San Giacomo), anche quella di Finisterre, diversa dalle altre, che si guadagna percorrendo i 90 km che vanno da Santiago al mar Atlantico. Ha trasformato in realtà il sogno di molti pellegrini. Ha lasciato la sua Madrid, il traffico e lo stress, ha aperto il suo locale in questo piccolissimo paesino di Boente, ed ora vive felicemente del suo, attendendo ai pellegrini di passaggio. Ci lasciamo con la promessa che gli invierò via e-mail la foto appena scattata. I miei complimenti per un dolce fatto dalla moglie, col quale concludo, dopo il panino al formaggio, la mia sosta di ristoro.
Sono quasi le due sull’orologio della chiesa, quando mi rimetto in marcia. Meno di un’ora dopo arrivo a Ribadiso, dove un pellegrino che ha già trovato posto nel rifugio mi chiede se voglio una foto. Eccomi a gambe ben piantate al suolo, non so se per paura di barcollare o perché immagino di smontare da cavallo, assistito dal mio fedele scudiero Sancho Panza. Alle mie spalle il fiume Iso, un ponte e oltre il ponte un casolare. È lì che trovo posto per la notte e concludo questa sesta, terzultima giornata del mio cammino in Galizia.
Segui il viaggio:
Prima tappa: In Galizia sul Cammino per Santiago di Compostela
Seconda tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Da O Cebreiro a Fonfria
Terza tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Verso il monastero di Samos
Quarta tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Il tempo del pellegrino
Quinta tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Verso Ferreiros
Sesta tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Arrivo a Hospital de la Cruz
Settima tappa: Sul Cammino di Santiago di Compostela tra ricordi e sogni
Ottava tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Compagni di viaggio
Nona tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Sosta a Casanova
Decima tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Arrivo a Ribadiso
Undicesima tappa: Cammino di Santiago di Compostela – 40 chilometri alla meta
Dodicesima tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Sosta a Santa Irene
Tredicesima tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Verso Monte do Gozo