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Cammino di Santiago di Compostela – Nona tappa – Sosta a Casanova

Avrete notato che le puntate, di solito, finiscono con l’arrivo negli ostelli. È quello il momento in cui la mia macchina fotografica spesso cessa di funzionare, almeno per qualche ora. Sono le ore in cui il pellegrino deve premurarsi che il suo viaggio continui. Come? Lavando i calzini e le magliette, ma, soprattutto in questa stagione, preoccupandosi di far sì che tutto sia asciutto per il giorno dopo. Ci sarebbero, è vero, lavatrici e asciugatrici, ma costano più del mio letto e del mio tetto e non mi sembra coerente ricorrere a questi mezzi, fin troppo comodi e moderni per uno che attraversa province e regioni con i suoi piedi e le sue gambe.

E così mi arrabatto fra saponette e fili di nylon. Anzi, qui a Casanova, dopo un tentativo timido di far asciugare camicia e maglietta all’aperto, riporto tutto all’interno e lascio che si asciughino appese ai lati del letto. Per oggi ho deciso che salto il bucato. Domani riutilizzo le stesse cose di oggi. Il pellegrino non deve necessariamente lasciarsi dietro un profumo di Chanel. Le cose pulite mi serviranno per andare a cena. Domani, sulla strada, gli afrori dovrebbero disperdersi nell’aria.
Insomma, oggi niente bucato. Doccia per me e pulizia interstizi ruote per il carrellino, ovvero tagliando giornaliero.

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Poi c’è da mettere a posto lo stomaco che, dalle cinque del pomeriggio in poi, canta una liquida e gorgogliante romanza in onore di ogni piatto (e di ogni pietanza, se proprio volete la rima) di cui abbia udito notizia nel corso dei giorni e delle soste precedenti. Il problema era stato già affrontato all’ingresso, quando ho chiesto all’hospitalera, che qui è una impiegata comunale e non una volontaria, dove avrei potuto trovare del cibo, in quel posto fatto di due case e una legnaia.
– Niente paura – era stata la risposta –  il proprietario di un ristorante a due chilometri da qui viene a prendervi e vi riporta all’albergue – tutto compreso nei soliti 8 euro (a volte 7  o  9  o  10) del menu del pellegrino.

Anche qui, come a Hospital de la Cruz, si fa presto a fare comitiva. Non c’è alternativa. Meglio così. Eccoci tutti intorno a un tavolo, i 18 ospiti di questa notte a Casanova. La camerata, che qui è divisa in due, ha questa volta  le dimensioni di una semplice camera, ma i letti sono nove e la sensazione è un po’ quella di dormire uno sull’altro e non solo perché i letti sono a castello. Però è tutto pulito e riscaldato. Lamentarsi è fuori discussione. Muoversi con circospezione fra buste, zaini, calzini, camice e bastoni, fa parte del gioco. Per le scarpe c’è una rastrelliera all’ingresso che ci salva dal colpo di grazia del tanfo dello scarpone. Io parcheggio il carrellino nel corridoio, non troppo lontano dalla porta, per non avvertire il trauma del distacco.

Può apparire futile, e forse lo è, ma quanto è bella quella doccia ad ogni arrivo! Si benedice l’acqua anche senza conoscere il Cantico delle Creature. E quant’era dolce quel pezzo di pane rimasto nella busta, col quale ieri, nella cucina di Hospital, ho atteso che fosse ora di cena in compagnia del  mio quadernino di appunti e di un depliant  ritirato nel comune di Portomarin, con l’indicazione dei rifugi della Giunta e dei percorsi in chilometri fra uno e l’altro. Non senza alzarmi, ogni due o tre minuti, per rigirare la biancheria che avevo steso sui radiatori del piano terra.

Ma oggi, come ho già detto, non ho questa incombenza e me ne sto un po’ steso ad ascoltare i frizzi e i lazzi di un’altra compagnia di andalusi, tutti di Sevilla. La dialettica Nord / Sud non è una nostra prerogativa esclusiva, anche se da noi assume aspetti particolari e unici. Si riproduce tuttavia in Spagna l’opposizione fra un Sud ciarliero e fracassone e un Nord riservato ed ombroso. Una delle andaluse interpreta in pieno lo stereotipo, continuando a voce alta a inanellare battute salaci, motti di spirito e urla vere e proprie.  Io tiro fuori le mie fotocopie spiegazzate della guida e studio il percorso del giorno successivo. Sono a 61 km da Santiago, tre giorni di cammino, seguendo il mio ritmo salva-ginocchia. Chiedo alla vicina di letto la sua guida spagnola, per ricavarne ulteriori suggerimenti e diverse informazioni. Se provo a sonnecchiare, l’andalusa dalla faccia gitana (una mescolanza davvero notevole di tratti somatici che riassumono in un colpo solo l’intero continente euroasiatico) con la sua voce squillante mi fa riaprire gli occhi e sono attratto dalle scritte lasciate dai pellegrini sulle assi di legno che fanno da supporto al letto sopra la mia testa. C’è di tutto, in tutte le lingue, comprese quelle dell’estremo oriente, i cui caratteri osservo come si osservano i ghirigori di un tessuto decorato o i fregi di un tempio, senza sapere se si tratti di malese o coreano, thai o gingalese, ma stupito di quanta varietà di segni e simboli la nostra specie sappia far uso per rappresentare la realtà che la circonda o dar voce al proprio mondo interiore. Anche con quei caratteri vengono scritti versi che – ahimé – non potrò mai leggere e la loro musica non arriverà mai a toccare le corde della mia commozione.  Posso solo seguire quei tratti di inchiostro che, non avendo per me alcun significato, mi attraggono per la loro geometria misteriosa. Mi succede lo stesso quando ascolto il tedesco, con quelle consonanti che mi colpiscono come schegge di granate, le “u” che si incuneano come lance, le “a“ perentorie, come un ordine.  Carlo V,  a capo di quell’impero sul quale non tramontava mai il sole, nato e cresciuto in un crogiolo di lingue, diceva non a caso che il tedesco è fatto per parlare con gli eserciti, ma concludeva: “El español es para hablar con Dios!”. Era il secolo di S. Teresa d’Avila e San Juan de la Cruz. Come dargli torto?

Fra le lingue rappresentate sulle assi, qualcuno non ha voluto trascurare il greco antico, riproponendo il socratico γνῶθι σεαυτόν (gnothi seauton). Sulle assi vicine, il motto socratico è tradotto in francese ed inglese, (Connais-toi toi-même, Know yourself) non so se ad opera dello sconosciuto viandante filosofo, o di altri, sollecitati dal suo graffito a  una riflessione da rilanciare nelle lingue a noi più vicine.

Naturalmente, non dovete farvi illusioni. La mania graffitara dei pellegrini, non sempre tocca vette così elevate. I cippi di segnalazione, lungo la via, sono deturpati da segni  assai meno nobili. Coppie di nomi circondate da cuori, date incise e ricoperte da un guazzabuglio di altre date, uno stantio “I love you” seguito da disastrose traduzioni in lingue apparentemente “facili” come “Te quiero, Ti voglio tanto.” (Sic!).
È la spia di una certa massificazione di questo fenomeno, soprattutto nell’ultimo tratto, quello dei cento chilometri necessari per riscuotere la Compostela. Anche se non ho ancora incontrato un pellegrino che possa definire senza esitazione un perfetto imbecille, viste da lontano, alcune comitive di adolescenti mi fanno ipotizzare la presenza, fra loro, di qualcuno che potrebbe essere l’autore di uno di quei graffiti tanto originali. Così originali da riproporsi identici, nella loro compiuta inutilità, da un continente all’altro, da un autogrill a un sottopassaggio, dal muro scrostato di una classe scolastica a quello di un cesso di stazione.

L’universalità del cammino è anche in questo suo riproporci la stupidità e la banalità dei cliché che già conosciamo, quelli di un mondo in cui si vuol essere comunque protagonisti, e lasciare un segno senza avere alcun contenuto da proporre, secondo i canoni dei reality show.

Non è questo il caso di Javier, che siede di fronte a me, nella sala del ristorante dove ci prepariamo a consumare il nostro menù. L’avevo sorpassato ieri o avant’ieri e ricordo bene la sua faccia incoronata da barba e baffi, i suoi capelli ricci, il suo poncho di lana colorata come si usa in Perù, un cappello simile a quello dei Rastafari; impossibile non notarlo.

Il milanese seduto al suo fianco mi ha già parlato di lui. Avvocato pentito, si dedica al teatro per bambini. È un attore. La sua faccia assume in un’istante le pose da guitto, mentre ridiamo e scherziamo in attesa dei nostri piatti. Mi ricorda un mio cugino che, da ragazzo, era famoso fra i suoi amici per il modo in cui interpretava le barzellette.  A differenza di mio cugino che è nato a Taranto, ma si è lasciato alle spalle un Sud nel quale non saprebbe più vivere, Javier  è nato al Nord, ma vive a Madrid, anche se passa gran parte del suo tempo in giro per la Spagna. Il suo aspetto esteriore riflette una scelta di libertà consapevole e coerente, non è il vezzo di un esibizionista. Trasmette la tranquillità di chi riesce a vivere sul filo sospeso di una vocazione artistica e  non è irrigidito e impedito dall’attaccamento alle sicurezze tipico delle esistenze “normali”.

Il milanese si chiama Moreno, che in spagnolo vuole dire “bruno”, ed esibisce capelli e barba di un bel colore rosso chiaro che non possono non essere notati, ogni volta che si presenta col suo nome. È arrivato un po’ più tardi, occupando l’ultimo letto disponibile, ed ha fatto in un giorno i 40 km delle mie ultime due tappe. A casa lo aspettano moglie e due figlie e dichiara di fare il cammino per motivi spirituali.

A tavola, fra gli altri,  anche  Francesco di Arezzo, qui in Spagna per l’Erasmus, che mi ricorda Daniele, il mio ex collega di Civitavecchia;  una coppia di spagnoli, una signora amante dell’Italia e la solita sevillana che, nell’alzarsi per andare in bagno, si chiede se la toilette sia anch’essa segnalata dalla freccia gialla, temendo di perdersi in caso contrario. Tutti ridono ed i piatti sono serviti.

Di questa cena ricordo un ottimo pesce, ma la signora di Ferreiros continua a ricevere, nella mia fantasia, la coppa d’oro della ristorazione per pellegrini nell’Anno Domini 2009. Solo ora mi accorgo che, a pochi passi da noi, il resto dei pellegrini si è raccolto intorno ad un tavolo simile al nostro, ma senza che ci si sia scambiati una sola battuta o uno sguardo. Sono tutti “nordici”, tedeschi, olandesi, forse svizzeri. Non sempre l’amalgama fra germanici e latini si realizza. Quando accade è grazie al medium universale dell’inglese, ma stasera non si è data l’occasione, nessuno ha fatto scoccare la scintilla.

Ce ne torniamo nelle camerate ancora separati. Le risate, il chiasso della nostra tavola, il vino e l’appetito, mi hanno consentito solo ora di accorgermene. Prima di infilarsi nei saccoapelo, c’è solo il tempo di scambiare qualche sorriso, con lo spazzolino infilato fra i denti. Poi, anche la voce della signora di Sevilla sfuma nei vapori del sonno e, quando mi sveglio, sono quasi tutti più veloci di me nel preparare gli zaini ed uscire; da quella camera e da questa storia. Il piccolo microcosmo che prende forma ad ogni sosta, si dissolve con altrettanta rapidità il giorno dopo. Ognuna delle nostre facce torna a mescolarsi, come in un mazzo di carte, con le facce degli altri che abbiamo incontrato e che incontreremo, formando composizioni dagli effetti sempre nuovi e  toccando dentro di noi gli angoli più riposti della memoria e della immaginazione.

Vincenzo Continanza

Segui il viaggio:

Prima tappa: In Galizia sul Cammino per Santiago di Compostela

Seconda tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Da O Cebreiro a Fonfria

Terza tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Verso il monastero di Samos

Quarta tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Il tempo del pellegrino

Quinta tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Verso Ferreiros

Sesta tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Arrivo a Hospital de la Cruz

Settima tappa: Sul Cammino di Santiago di Compostela tra ricordi e sogni

Ottava tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Compagni di viaggio

Nona tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Sosta a Casanova

Decima tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Arrivo a Ribadiso

Undicesima tappa: Cammino di Santiago di Compostela – 40 chilometri alla meta

Dodicesima tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Sosta a Santa Irene

Tredicesima tappa: Cammino di Santiago di Compostela – Verso Monte do Gozo

MOSTRE

La Sapienza Università di Roma - Foto di Diego Pirozzolo
Fondazione Roma Sapienza, “Arte in luce” X edizione

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