di Nicola Rossello
Uno straniero: un emarginato dai tratti angelicati posto in condizioni di spaesamento e di incertezza economica: una figura non strutturata socialmente, dunque vulnerabile, indifesa di fronte a un destino inesorabilmente avverso. Un gesto improvvido: uno scambio di persona: l’assunzione da parte di Sébastien, il protagonista del racconto, dell’identità di un altro, un tossicomane morto per overdose: un passo falso (Sébastien si era illuso di poterne ricavare una grossa somma di denaro) che, precipitando l’eroe in un vortice di eventi incontrollabili, avvia un percorso rovinoso verso la catastrofe. L’incauta accettazione di un gioco enigmatico di cui si ignora ogni cosa – regole, meccanismi, rischi – e che si rivelerà una trappola fatale. La scoperta sconvolgente (lo spettatore la compie di pari passo con il personaggio) di un universo disumano e nefando, un incubo indicibile da cui Sébastien non potrà non lasciarsi risucchiare, quasi che una divinità vendicativa abbia voluto infliggere all’eroe un supplizio atroce per castigarlo di una colpa segreta e inconfessabile: il tentativo di sottrarsi alla propria condizione di ultimo della terra. Lo spettacolo osceno della morte a cui vanno incontro alcuni reietti imbottiti di morfina, offerto in pasto a una folla di spettatori che in quei cerimoniali abietti ricerca divertimento, piacere, ricchezza.
13 Tzameti è un piccolo grande miracolo, uno squisito gioiello manierista che, attingendo a piene mani a modelli narrativi e iconografici differenti (le sue matrici spaziano dal cinema muto sovietico al film criminale americano, alla série noire francese: si sente che il regista è un cinefilo erudito), si presenta allo spettatore come un fiore raro e prezioso nella sua originalità dissimulata (le influenze pur presenti nell’opera sono insufficienti a render conto della sua carica innovativa). Gela Babluani (l’esordio più imperioso del nuovo millennio, il suo) ci offre uno dei noir più cupi, inquietanti e potenti dell’intera storia del cinema; un’opera capace di appropriarsi dei codici di una gloriosa tradizione letteraria e cinematografica e di arricchire quel repertorio mitologico di nuova linfa vitale; una pellicola in cui la sensibilità personale dell’autore nei confronti del genere si esprime in una visione desolata e disturbante del paesaggio umano e sociale del nostro tempo.
Non ha goduto del favore del pubblico italiano, 13 Tzameti. E tuttavia si tratta un film solido e asciutto, che ha dalla sua una sceneggiatura compatta e rigorosa, ignara di qualsivoglia seduzione letteraria (Babluani possiede il senso del racconto), e un montaggio implacabile, affilato come la lama di un rasoio, costruito su un crescendo di tensione quasi insostenibile, che deflagra in ripetute esplosioni di violenza, e in una chiusura amarissima, ma a suo modo catartica nel suggerire, con discrezione, un risvolto sacrificale, cristologico, al calvario doloroso del protagonista.
La raffinatezza compositiva della pellicola coniuga insieme il crudo realismo dei noir RKO all’atmosfera allucinata e gelidamente perversa di una favola malvagia. A dare uno spessore denso e opaco ai volti patibolari dei personaggi e allo stilizzato squallore dei luoghi (una casa in riva al mare, una villa isolata in mezzo al bosco…) interviene una fotografia sontuosa, un bianco e nero lavoratissimo che guarda insieme alla sofisticazione formale del cinema sovietico e alla maestria stilistica dei grandi operatori hollywoodiani degli anni Quaranta.
Un piccolo grande miracolo.
Scheda film
Titolo: 13 Tzameti
Regia: Géla Babluani
Cast: George Babluani, Pascal Bongard, Aurélien Recoing, Fred Ulysse
Durata: 86 minuti
Genere: Thriller
Anno di uscita: 2006