Stanze fumose. Gente tra i corridoi recita poesie come un tempo Ginsberg e Corso. Qualcuno ancora spera di vedere Andy Wharrol uscire da una stanza con una macchina da presa. Nella notte, chi non riesce a dormire ascolta musica o suona o girovaga tappandosi le orecchie caso mai echeggiassero dall’aldilà le urla di Nancy Spungen.
Siamo al Chelsea Hotel a New York, situato al 222 West 23rd Street di Manhattan, o meglio, immaginiamo di esserlo, perché da qualche giorno non è più possibile prenotare. L’albergo chiude per una migliore destinazione: resort extra lusso o appartamenti per ricchi inquilini.
Quelle mura sono impregnate di sudore e di storia. Corrose dall’arte, dalla creatività, ma anche dalla disperazione e dall’angoscia, di spiriti troppo sensibili e fragili, che qui hanno vissuto la quotidianità delle loro esistenze e la turbolenza delle loro paure.
Dal Chelsea Hotel sono passati un po’ tutti gli artisti: famosi, ricchi, squattrinati, sconosciuti, depressi, euforici, drogati, sul viale del tramonto o alle porte della ribalta.
A sbirciare l’elenco delle presenze, per citarne alcuni, figurano Allen Ginsberg, Mark Twain, O. Henry, Jack Kerouac, Gregory Corso, Arthur Miller, Patty Smith insieme al fotografo artista Robert Mapplethorpe, Jean Paul Sartre, Simone de Beauvoir. C’era chi non aveva i soldi per pagare e lasciava per il pernottamento opere d’arte o cimeli personali, tutti gelosamente conservati ed esposti al Chelsea.
Qui Arthur Miller scrisse After the Fall, Arthur Clarke la sua 2001 Odissea nello Spazio, Bob Dylan compose Sad Eyed Lady of the Lowlands. L’Hotel era diventato un’enorme performance che metteva in scena la vita spinta alla massima velocità, con tutti i vizi e le virtù, le luci e le ombre.
Sono state scritte canzoni, poesie, girati film, compiuti delitti e consumati amori. Probabilmente se fosse vivo Caravaggio oggi alloggerebbe al Chelsea ed ambienterebbe in quei locali la sua Madonna dei pellegrini.
L’America è stata la culla di buona parte delle più importanti esperienze artistiche della contemporaneità: dalla musica alla pittura, dal cinema all’architettura e alla letteratura. I suoi miti e la sua cultura rappresentano il patrimonio storico più importante del Paese. E l’Hotel Chelsea è uno dei simboli indelebili. Non è il Colosseo, neppure la Torre Eiffel, ma il suo valore è tutto concettuale ed evocativo, perché quell’edificio è sinapsi di una cultura e una controcultura che ha fatto grande l’America e ha fatto riflettere il mondo. Una volta dire “alloggio al Chelsea Hotel” significava presentarsi come una persona creativa e sensibile. “Si può considerare – ha scritto il The New York Times Book Review – uno dei pochi luoghi civilizzati della città, se per civiltà si intende la libertà dello spirito, la tolleranza delle diversità, la creatività e l’arte“.
Addio Chelsea Hotel, inghiottito dai bilanci e dall’idea del profitto. Accoglierai persone alla moda, forse vuote e aride, ma disposte a spendere tanti soldi, per la felicità dei consigli di amministrazione, in particolare di quello che ha messo da parte la famiglia Bard che da sempre ha gestito l’albergo, contribuendo a creare la storia ed il mito.
Bisognava ragionare con il cuore, ma forse, ripensando ai versi di uno dei tuoi più illustri inquilini, il poeta Dylan Thomas, che ha vissuto gli ultimi anni della sua vita tra le tue stanze, comprendiamo come serve a poco o nulla. “Mi fu detto: ragiona con il cuore – recitava Dylan Thomas -; Ma il cuore, come la testa, è un’inutile guida.”
Addio storico albergo di New York. In tanti abbiamo immaginato almeno per una volta di chiamarti “casa”.
Noi, tuoi fans, continueremo, in ogni stanza di hotel che ci accoglierà, a sognare di essere al Chelsea e a cantare
“I remember you well in the Chelsea Hotel
you were famous, your heart was a legend.
You told me again you preferred handsome men
but for me you would make an exception”. (Chelsea Hotel #2 di Leonard Cohen – 1974).
Diego Pirozzolo