Il Prof. Raffaele Nuzzi è chirurgo oftalmologo, docente presso l’Istituto di Clinica Oculistica dell’Università di Torino e presso l’Università del Piemonte Orientale – Facoltà di Medicina e Chirurgia – di Novara. La sua attività scientifica rivolta alle patologie dell’occhio è documentata da varie centinaia di pubblicazioni su riviste specializzate italiane ed internazionali, dalla partecipazione come relatore a numerosi congressi in Italia e all’estero. La sua ricerca, effettuata presso l’Istituto di Clinica Oculistica dell’Università di Torino, abbraccia vari ambiti, in particolare quello dell’utilizzo delle cellule staminali autologhe nel campo della «retino-rigenerazione» e della «retino-protezione». Nell’intervista, concessa alla nostra rivista e curata da Rinaldo Longo, egli ci illumina sullo stato dell’arte nel settore della sua ricerca. Ringraziamo il Prof. Raffaele Nuzzi per la sua cortesia e per queste sue risposte, dalle quali si evince un panorama interessante della ricerca e della chirurgia oftalmica in Italia e nel mondo.
Due anni fa, in un’intervista dal titolo “Le staminali servono ?”, rilasciata a Occhi aperti, periodico d’informazione dell’A.P.R.I., Lei metteva in rilievo l’importanza di poter effettuare tutte le procedure con cellule staminali unicamente in strutture d’eccellenza. «Si potrà arrivare col tempo – diceva – alla creazione di “ocular cell and tissue factory”». E aggiungeva: «Per ora nessuna delle strutture di cui stiamo parlando è presente in Italia. Occorre invece tracciare una nuova via maestra dell’ “Oftalmologia Rigenerativa” e sarebbe auspicabile crearla a Torino onde evitare sprechi economici e di preziose professionalità». Ora, a distanza di due anni da quella intervista può dirci quale è lo stato dell’arte nel settore della Sua ricerca?
«Lo stato dell’arte delle mie ricerche è localizzabile nel complesso passaggio dalla sperimentazione animale a quella diretta sull’uomo in termini di auto-innesto (innesto autologo) e non di trapianto cellulare, previo standardizzazione e tipizzazione cellulare – quantitativa e qualitativa – nonchè eventuale amplificazione in vitro ed attechimento in loco mediante farmaci adiuvanti».
Può dirci quale problema, o eventualmente quale impedimento c’è, se c’è, che Le impedisce di iniziare a praticare la Sua opera a favore di quanti, non vedenti o ipovedenti, si rivolgono a Lei per guarire dalla loro disabilità o per alleviarla?
«Gli impedimenti sono correlabili all’acquisizione di adeguate ed esclusive strutture clinico-chirurgiche-biologiche oculistiche nonchè in ambito interdisciplinare e logistico attuativo, comprendente anche una annessa “eye cell and tissue factory”».
Quali sono i vantaggi del Suo metodo rispetto a quello che mira a sostituire la perduta funzionalità della retina con una retina artificiale? Mi riferisco alla via che sta percorrendo a Pisa il Prof. Stanislao Rizzo, direttore del reparto di Chirurgia oftalmica dell’Azienda ospedaliero-universitaria di quella città (è recente l’eco del suo intervento definito rivoluzionario su un paziente affetto da retinite pigmentosa), e a Milano il fisico Prof. Guglielmo Lanzani con ricercatori del Dipartimento di Neuroscienze e Neurotecnologie (Nbt), del Centro di Nanoscienze e Tecnologie dell’Istituto Italiano di Tecnologia (Cnst – Iit Polimi) e del Dipartimento di Fisica del Politecnico di Milano (a loro si deve all’inizio del 2011 la messa a punto del prototipo della prima retina artificiale al mondo perfettamente funzionante).
«A mio avviso la “retina artificiale”, in termini di biomateriali e biotecnologie, non potrà raggiungere i risultati ottenibili mediante la “retino-rigenerazione” e la “retino-protezione” indotta da terapie mirate in loco – mono/pluricellulari -, ripetibili e reversibili. Il confronto è comunque stimolante nonché interscambi sono possibili ma non penso per il futuro che le due linee progettuali di ricerca, seppur avvincenti e suggestive, potranno integrarsi e raggiungere risultati univoci e/o complementari».
Che pensa del filone definito della terapia genica (A.Ciccodicola, F. Simonelli) che mira ad utilizzare virus depotenziati per portare al DNA il pezzettino mancante, per correggere il difetto di natura genetico all’origine della retinite pigmentosa che colpisce le cellule fotorecettrici della retina (i coni e i bastoncelli), uccidendole lentamente? Ci pare, in alcuni casi (utilizzo di cellule staminali autologhe), debba incrociarsi con la via percorsa dall’Oftalmologia Rigenerativa da Lei sostenuta.
«La terapia genetica potrà essere promettente ed adiuvante ma ad oggi la mancata decodificazione completa del codice genetico pone problematiche di premessa già di per sé apparentemente limitative ( ad esempio la eventuale sola identificazione di una singola mutazione correlata ad una malattia oculistica genetica). Le applicazioni genetiche nella malattia di Stargardt, nella malattia di Usher e a varie forme di Amaurosi di Leber sono attualmente ancora in fase preclinica di sperimentazione animale. Non penso che ad oggi la sola sostituzione di un unico gene “malato” possa di per sé modificare la retina patologicamente danneggiata in alcune delle malattie genetiche oculistiche.
Si vedrà nello spirito collaborativo di sempre se per il futuro sussisteranno reali presupposti genetici/biologici, complementari e in che percentuale, da supportare ed implementare le attuali innovative applicazioni biologico-chirurgiche vitreo-retiniche».
E la cosiddetta tecnica elettrofisiologica (V. Procoli, B. Falsini) può avere qualche collegamento col filone delle cellule staminali?
«Le innovazioni elettrofisiologiche, soprattutto di monitoraggio prima e dopo, risulteranno molto importanti, in particolare per valutare l’attecchimento, la migrazione, la sopravvivenza settoriale, maculare e non, delle cellule autologhe innestate in terapie di auto-innesto sia mono sia pluricellulari (previo standardizzazione della tipologia cellulare statisticamente più efficace, quantitativamente e qualitativamente)».
Rinaldo Longo