Il caffè attende sul tavolo in terrazzo, accompagnato da brioches con nutella e marmellata. Arrivo, mi siedo sulla panchina, sorseggio il caffè. Di fronte una distesa di mare color ciano, che avvolge lembi di terra, insenature e penisole. Non c’è sole ed un leggero vento rumoreggia tra le piante di limone ed i fichi d’India. Quasi un suono remoto, poco definibile. Forse proviene da Capo Miseno, dall’altra parte del mare, che nasconde le ceneri dell’eroe “famoso per il liuto e la lancia”, capace di eccitare i compagni col “bronzo” e “Marte col canto”. Quel prode compagno di Ettore a Troia e di Enea nel suo viaggio osò sfidare il dio Tritone nel suono del liuto. Non l’avesse mai fatto, ma lo capisco. Questi luoghi emanano un’energia indescrivibile, bisogna viverli per rendersene conto. Le passioni si amplificano ed i sensi si espandono: si trova la forza per sfidare il fato, per rivaleggiare contro un dio.
Lo spettacolo dal promontorio è grandioso: lo sguardo dall’alto domina il mare, va oltre la terra e poi si perde nell’orizzonte. Per chi ha una fervida immaginazione, stenta a credere che quel panorama sia reale. Nasce un dubbio sottile, labile come la linea dell’orizzonte tra cielo e mare, che tutto ciò su cui si posa lo sguardo sia finzione e suggestione. Poi il vento va via, trascinando il velo di nubi che ancora copre il cielo, per lasciare posto al sole e contemporaneamente all’ultima goccia di caffè che sto bevendo. Mi accorgo che non solo tutto è concreto, ma che sono anche in estremo ritardo: all’ingresso dell’albergo un gruppetto di amici, armati di “reflex”che maneggiano come coltelli, mi aspettano. Sono pronti a tagliare con i loro “ferri” ogni angolo del paesaggio per ridurlo in brandelli dalla dimensione di un frame 24 x 36 mm.
Siamo a Procida, dove tutto ha qualcosa di epico. L’isola dalle “tante cose”: di Massimo Troisi del Postino, di Elsa Morante che amava scrivere qui, di Graziella del romanzo di Lamartine, solo per citarne alcune. Un’antica leggenda vuole che il suo nome derivi da Prima Cyme, “prossima a Cuma”, la sede della Sibilla.
Chiara è del posto, ci guida e pensa a tutta l’organizzazione. Prima della spedizione fa preparare ad un ristorante sul lungomare Colombo il coniglio procidese, un’antica ricetta del luogo, traccia gastronomica dell’allevamento di conigli sull’isola.
Sistemato l’appetito ci porta a Vivara, una riserva naturale dalla vegetazione incontaminata, che parte dal mare e si erge fino alla cima di un monte. Ci facciamo strada tra i sentieri incorniciati dagli alberi, non vedendo altro che foresta per lunghi tratti di cammino. D’improvviso la vegetazione si apre come il sipario di un teatro, scoprendo vaste distese di mare. Si passa dal verde al blu, da spazi chiusi a strepitosi panorami marini nel giro di pochi secondi ed in modo del tutto inaspettato. Basta girare l’angolo di qualche sentiero per imbattersi in qualche fortezza antica, nei ruderi di una torre, in un’armeria francese ben nascosta dalla sterpaglia, in avamposti per cannoni, in alberi caduti e rimasti lì da almeno dieci anni. Perdersi è ancora più suggestivo: si rimane soli nella foresta in compagnia di quel suono del vento cadenzato e ben ritmato dallo stridulo fruscio delle foglie. In cima al monte si scorge di nuovo Capo Miseno e mare ed altro mare. Doveva essere un posto simile a Vivara quello in cui Enea trovò il ramoscello d’oro che gli permise di attraversare l’Ade, dopo aver seppellito il compagno Miseno caduto nella sfida contro Tritone. Io da qui vedo la sua leggendaria tomba, un ammasso di terra tozza che svetta sulla pianura d’acqua blu. Non ho trovato il ramoscello d’oro, ma Chiara e gli altri compagni che avevo perduto. Sono in cima ad una roccaforte da cui si domina Procida e si scorge l’isola di Capri.
Non c’è tempo per riprendersi dall’overdose di vegetazione e mare, miti e fotografie, che siamo già in barca a circumnavigare l’isola. Inizia a calare la notte e il mare è calmo. La barca scivola veloce. C’è un punto dell’isola che visto dal mare, nei primi colori della notte, conserva l’esatta corrispondenza tra il nome ed il suo significato: “Terra murata”. Di fatto un muro di terra che si erge dal mare verso l’alto. Nell’oscurità sembra un’enorme diga che trattiene il Mediterraneo. Alla sua estremità si erge il campanile dell’abbazia di San Michele Arcangelo con accanto il relitto architettonico del vecchio carcere. Mi chiedo cosa pensavano gli internati con la vista perennemente sul mare: non c’è punizione più grande di vedere vasti orizzonti e non poterli raggiungere. Dal mare è più rassicurante ammirarlo, dato che se pur abbandonato, serba ancora un certo sinistro fascino.
Qualche amico mi prende in giro ricordandomi che siamo nelle acque delle sirene di Ulisse: un po’ per le onde, un po’ perché ormai ai miti quasi voglio crederci, mi tengo ad una fune con una mano e mi sporgo verso Capri, che scompare all’orizzonte appena la barca vira verso Marina grande. Le luci dell’isola cominciano ad accendersi. La gente si muove per le strade, occupa i ristoranti e le birrerie. Ancora un’altra virata e la barca entra nell’insenatura di Pozzo Vecchio, fermandosi nella celebre spiaggia in cui Massimo Troisi girò Il postino. Il mare a questo punto ed a quest’ora della sera diventa di un blu denso, fortemente saturo, mentre le ombre dei promontori riflessi nelle acque e vacui perché modulati dalle onde, ci spingono nella surreale esperienza del reale. Questa è Procida, dove tutto è davvero labile: i confini tra mare e terra, tra cielo ed orizzonte, tra realtà e sogno.
Ci penso ancora alla scorsa notte in giro per il mare e poi su e giù a piedi per le birrerie dell’isola, dopo un’ottima pizza. Ci penso, ma cerco di archiviare i pensieri. Continuo ad essere bombardato dalla varietà del paesaggio. E di fatto non so se ho perso il filo temporale di questo “pezzo”. Qualche ora fa ero a colazione in albergo, ora sono seduto in un locale, bombardato dai colori del borgo dei pescatori a Corricella. Il ristoratore è gentile, dispensa consigli sulla vita a Chiara ed a qualche altro amico. Io lo ascolto con il vino bianco sulle labbra, assaporando la pungente e deliziosa leggera acidità dei vini isolani. Corricella è un pezzo di isola a se stante. Anche di questo angolo di Procida stenti a credere se sia vero “per davvero”. Le case sono costruite l’una sull’altra in maniera modulare. Ognuna è contraddistinta da un colore forte, che ben s’intona con quello della casa adiacente e con l’azzurro del mare. Sembra un gioco di costruzioni per bambini. Anzi, ti chiedi se non sei parte del gioco, e mentre assapori un altro goccio di vino, dopo un assaggio di pesce fritto, alzi gli occhi al cielo sperando di scorgere una grande mano che monta un’altra casetta colorata sul paesaggio. Intanto il ristoratore non smette di dispensare consigli, qualcuno scatta una fotografia ed io continuo a dedicarmi al pesce fritto.
Questa è Procida ed è tutto reale, così meravigliosamente surreale.
Diego Pirozzolo
P.S. Ringrazio Chiara Scotti, il gruppo delle “Indifferenti”, i ragazzi di AF2L, per avermi fatto conoscere quest’isola e aiutato a non perdermi.