“Ho una grande attrazione per i luoghi. È quasi una sorta di dipendenza. Altre persone sono dipendenti da droghe o dal calcio, (beh, anche io…) dai soldi, dalle automobili, dal successo, o da qualsiasi altra cosa. Io adoro i luoghi. Mi lego talmente a loro, che posso sentire nostalgia per una dozzina di luoghi contemporaneamente”. Partiamo da queste osservazioni di Wim Wenders. Partiamo, perché una mostra sui luoghi ritratti da Wenders è comunque un viaggio, anche se, nel mio caso, solo di pochi km, da Roma a Napoli, sede dell’esposizione. Appunti di viaggio è il titolo della rassegna visitabile fino al 17 novembre 2013 a Villa Pignatelli. Una breve distanza, che ti consente di spaziare tra l’Armenia, il Giappone e la Germania, confrontandoti con luoghi inusuali e suggestivi, che si fanno soggetto, svelando nella loro composizione una realtà comprensibile solo attraverso l’obiettivo: l’angolazione, il taglio prescelto, il grande formato.
Rimango fermo, impassibile, a godere di ogni scatto di Wenders. Poi mi fermo ancor più attento sull’immagine Petrol Station in Alaverdi, Armenia. C’è una via che costeggia un vecchio complesso industriale. Le vie, come tutte le vie, conducono fuori città, spingono l’occhio a percorrerla con il camion che l’attraversa fino ad un luogo indecifrabile fuori dall’immagine, fuori dal complesso industriale. Ciò che resta fermo, oltre alla costruzione che si protrae come una quinta teatrale lungo tutta la foto, è una piccola stazione di benzina chiusa, quasi arrugginita, logorata dal tempo. Lei è lì immobile, chissà da quanti anni, come se fosse direttamente uscita da una foto di Walker Evans e trasportata in questo luogo sperduto dell’Armenia. Ci sono dei topos nella fotografia, che tendono a ripetersi, presentandosi in luoghi diversi ed in epoche lontane tra loro. Se per Evans le stazioni di benzina erano tipicamente il segno del mutamento dei tempi ed una traccia della trasformazione del paesaggio ad opera dell’uomo, per Wenders sono un trascorso di una umanità passata, il pretesto per una storia che si può leggere guardando con la coda dell’occhio quella ruggine che segna il tempo operante, logorante giorno dopo giorno, che rende ruderi le cose presenti e dell’uomo non ne lascia traccia se non il metaforico passaggio di un camion solitario sulla via che conduce fuori dalla foto, dal tempo. Una foto emblematica della poetica del cineasta e fotografo di Düsseldorf.
Se c’è una costante in tutte le opere in mostra, questa è il tempo. In Wenders rappresenta un elemento concreto testimoniato dalla sua azione sulle costruzioni dell’uomo. Il tempo opera sempre, in modo lento, ma inesorabile. Arrugginisce, lascia filtrare l’umidità, scolora, indebolisce le strutture, rompe. Nelle foto noi possiamo constatare una sorta di stato dell’arte del suo operare. Come la ruota panoramica ritratta in Armenia, in una landa desolata attraversata dalla bruma. Sembra quasi di sentire il cigolio della struttura per l’azione del vento. Mentre intorno nulla. In passato, forse, c’era un parco divertimenti, un passatempo per bambini sotto il regime sovietico. Ora solo un prato verde, un paesaggio straniante, dove la presenza dell’uomo sembra scomparsa da molte decadi: prova della fragilità strutturale delle sorti del regime sovietico.
Nel vecchio quartiere ebraico a Berlino, al contrario di un vasto paesaggio, osserviamo una porzione di vecchia casa. La costruzione è ritratta in modo frontale e occupa tutto lo spazio dell’inquadratura. Una tecnica spesso usata da Walker Evans, quando voleva indirizzare l ‘attenzione non tanto sugli uomini ma sulla loro vita, desunta dai luoghi in cui abitavano. Qui non è così. Perché in quella casa non vi abita nessuno da anni. Così come è ritratta non possiamo sfuggire. Siamo costretti a guardare e soffermarci sui segni del tempo, ma anche sui fori lasciati dai proiettili ed evidenziati dalla vernice rossa. Quei fori riportano alla memoria la persecuzione nazista. La foto, però, non si lascia penetrare. L’occhio finisce per sbattere sul muro. Non ha vie di fuga, si può solo guardare quella parete e quelle finestre. Eppure se l’occhio si ferma, l’immaginazione corre veloce, perché quelle pietre sono impregnate dalla storia di chi in quella casa è vissuto. Quei fori raccontano storie, quelle inferriate piegate dicono di più: suggeriscono la vittoria dell’oblio che scende prima sull’uomo, poi sulle cose, ma scende comunque, trascinandosi dietro anche la disperazione umana di una famiglia durante il regime.
Il concetto della vita nelle case antiche, stratificata sulle pareti e richiamata dall’immaginazione, è stata esplicitamente trattata in alcuni lavori di Francesca Woodman in cui si vede la sua immagine, ritratta con tempi di esposizione lunghi, letteralmente trasbordante da quello che resta di una carta da parati consumata dall’umidità. Wenders si affida invece al potere della rivelazione dischiusa dall’inquadratura di un pezzo di realtà doppiamente suggestivo: offeso dal tempo e da quella parte di storia terribile vissuta dal suo Paese.
Nelle sue foto, dunque, abbiamo una ri-innovazione della migliore tradizione fotografica americana e di quella tedesca, in particolare il filone di artisti di ricerca che si è formato a Düsseldorf sotto l’insegnamento dei coniugi Becher, il tutto interpretato in maniera personale ed originale. L’apparente staticità delle immagini, confrontata con quelle in movimento dei film, è superata divenendo spunto per un racconto, ovvero mobilità dell’immaginazione libera di spaziare oltre i contorni dell’inquadratura.
Appunti di viaggio è una mostra che raccoglie circa 20 fotografie, accompagnate da note di viaggio dell’artista, scattate nell’ultima decade e tratte dalla pubblicazione più recente di Wim Wenders, Places Strange and Quite, edita nel 2013. Una mostra che, foto dopo foto, ci fa ripetere le stesse parole che usò Wenders alla vista dei luoghi ritratti: “Sto lì e semplicemente non posso credere a quello che vedo… È questa la mia sensazione preferita“, è questa la nostra emozione di fronte alle sue foto.
Diego Pirozzolo