Squilla il telefono:
– Arrivo a Roma, andiamo da Frida?
– Vieni per me? – Rispondo.
– Per Frida, ma tu ci verrai?
Breve conversazione con un’ amica che mi comunica il suo arrivo in città.
Quello stesso pomeriggio per le strade del centro storico un’ altra conoscente mi chiede:
– Sei andato da Frida?
– Già! Frida. – Le dico.
– Si proprio lei. Hai avuto modo di vederla?
A Roma da qualche giorno si è aperta alle Scuderie del Quirinale la mostra Frida Kahlo. Una imponente retrospettiva che raccoglie oltre 40 capolavori dell’artista, coprendo tutto l’arco della sua vita e carriera di pittrice. C’è una specie di fermento, tanti mi chiamano e vogliono vederla, mi chiedono se sono stato da lei. Come se fosse viva ed avesse un salotto per accogliere amici e conoscenti. La chiamano per nome, con affetto, quasi avessero vissuto tanti anni in sua compagnia, condiviso storie ed emozioni. Sono sopratutto le donne che cercano Frida, vogliono vederla, sorridono nel pronunciarla.
Non è solo un’artista che si è imposta nella storia del Novecento, una sorta di prima donna della pittura. Frida è di più. Riesce a coinvolgere e a farsi amare intimamente, come se fosse viva, come se fosse, appunto, una nostra conoscente. Si vive una sorta di sindrome da Frida. Alle Scuderie del Quirinale i visitatori appassionati, le donne, i giovani, li vedi nei volti, percepisci non quell’aria da intellettuali che si respira in certe mostre, ma di intimi, teneri amici dell’artista, frequentatori delle strade messicane ai tempi della rivoluzione; sono tutti messicani, Roma è il Messico, io sono messicano. Potere di Frida. Potere di una mostra come non se ne vedevano da tempo. Capace, per davvero, di raccogliere tutta la produzione artistica dell’autrice, di presentare i quadri più famosi, fotografie del tempo, documenti suggestivi come il busto di gesso decorato dalla stessa Kalho.
Un corpus unico di capolavori provenienti dai principali musei e collezioni di tutto il mondo.
Si inizia con le prime opere, come l’Autoritratto con abito di velluto del 1926, dipinto a soli 19 anni ed eseguito per l’amato Alejandro Gòmez Arias, nel quale si raffigura come una donna del Modigliani o del Parmigianino, e si prosegue con i capolavori realizzati nel corso della sua carriera. Passioni, sofferenze, amori, ideali si susseguono nelle sue opere, così come i richiami ai principali movimenti artistici del Novecento capaci di ispirarla: dalla Nuova Oggettività al Realismo magico, dalla riscoperta dell’arte folklorica e ancestrale ai riflessi del realismo americano degli anni Venti e Trenta, o ancora le opere ispirate dal muralismo messicano, ricche di componenti ideologiche e politiche.
Non si può capire Frida senza conoscerne la vita. Oppure è falso, la si può capire benissimo anche senza sapere nulla di lei. Guardarla negli occhi nei suoi innumerevoli autoritratti, in cui si raffigura in modi sempre diversi: «Dipingo me stessa perché trascorro molto tempo da sola e perché sono il soggetto che conosco meglio». Attraverso il suo volto si legge la sua storia, i suoi dolori, il travaglio per la perdita del bambino, il rapporto con l’amato Diego Rivera, la passione e l’impegno politico.
I suoi ritratti sono ricchi di elementi simbolici, di citazioni colte, dei colori e degli abiti del Messico. A volte si raffigura come una dea, un’icona religiosa, come un ex voto. Un esempio è Autoritratto con collana di spine e colibrì (1940), dove Frida ha lo sguardo di un Cristo medioevale, con la differenza che la corona di spine diventa una collana che l’adorna e che, cingendole il collo, le procura ferite sanguinose. In L’abbraccio amorevole dell’universo, la terra, Diego, io e il sgnor Xolotl (1949) è al centro dell’universo abbracciando un bambino con il volto di adulto (Diego Rivera). Frida si comporta come una madre con in braccio il suo figliolo, mentre entrambi sono stretti nell’abbraccio della madre terra che li sovrasta. Sullo sfondo viene raffigurato l’universo con ai lati un sole scuro e una luna luminosa, infine due grandi mani, quelle del giorno e della notte, racchiudono in un abbraccio tutte le altre figure.
Sono solo alcune delle numerose opere esposte ma sono abbastanza esemplificative dello stile dell’artista. Donna dalla vita avventurosa, esuberante, ribelle. Alle Scuderie ci si trova a tu per tu con lei, con i suoi autoritratti: inizia un muto ed intenso dialogo con la sua persona. Ed allora cerco di spiegarmi come sia possibile una sindrome di Frida, come si diventi perdutamente “fridiani”. Ciò che cattura e l’immediatezza del messaggio che filtra oltre la pittura: fatto di passioni umane, di amori, di dolore e di umanità. Sentimenti primordiali raffigurati con la sensibilità, la leggerezza ed insieme la crudeltà di una donna. «La sola cosa che so è che dipingo perché ne ho bisogno e dipingo sempre quello che mi passa per la testa, senza altre considerazioni». La pittura diventa, dunque, un’esigenza imprescindibile, il tentativo di raccontare, comunicare, mettere in luce il suo mondo. Ma anche un tentativo forse per esorcizzare il dolore. «La mia pittura porta in sé il messaggio del dolore», scriveva, perché è terribilmente vera e con essa sembra cercare una sorta di catartica compassione, quella compassione che ci chiede nelle opere in cui un cordone ombelicale perde liquido che feconda una terra: contraltare al suo aborto. Quella compassione che ella stessa prova nei confronti dei più deboli che lottano per affermare i propri diritti. Una compassione che diventa nel visitatore una grande lezione di vita, uno squarcio aperto sulle nostre mancanze, sulla nostra miseria, sulla nostra incapacità di soffrire, di sacrificarci per cause vere, di mostrare le nostre debolezze.
«Dipingere ha arricchito la mia vita», scriveva. Certamente frequentare la sua pittura arricchirà la nostra. Sono anch’io messicano, sono anch’io “fridiano”.
Frida Kalho, a cura di Helga Prignitz-Poda, Roma, Scuderie del Quirinale, fino al 31 agosto 2014.
Diego Pirozzolo