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Il primo giorno di scuola di Andrea – Una storia di ordinaria emarginazione

L'educazione è cosa del cuore, Don Bosco
La campanella è suonata. È il primo giorno di scuola e Andrea, che abita in uno dei quartieri più degradati della città, aspetta, insieme a sua madre, che gli venga indicata la sezione della classe che dovrà frequentare.

Dopo 5 anni di scuola elementare, vissuti ad accumulare più lacune che conoscenze, la speranza è che alla scuola media, o secondaria di primo grado, volendo usare termini più istituzionali, qualcosa possa cambiare.
Lo spera soprattutto la madre, che sacrifici ne fa tanti per mandare suo figlio a scuola. Di giorno fa le pulizie in una famiglia benestante e, quando se ne presenta l’occasione, di notte assiste anziani e ammalati. Il marito l’ha lasciata per andarsene con un’altra e di suo figlio se ne è sempre disinteressato.

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Giovanna è il suo nome; nonostante la sua giovane età ha il volto segnato da una quotidianità che ogni giorno le ruba un sogno ma che non ha ancora spento il suo sorriso.
Adora il suo piccolo e per lui farebbe qualsiasi cosa pur di aiutarlo a costruire un futuro migliore. Per questo spera e ha fiducia anche nella scuola.

«Farai tante amicizie e troverai nuovi professori che ti insegneranno tante cose e ti aiuteranno a crescere», continua a dire Giovanna al piccolo Andrea mentre uno dei professori legge l’elenco dei nuovi iscritti. Si è giunti già alla sezione “D” ma lui non è stato ancora chiamato.
«Vedrai che il prossimo nome sarà il tuo e così potrai raggiungere i tuoi nuovi compagni», lo incoraggia la madre, che nel suo cuore comincia a provare un po’ di tristezza.

Tra il chiasso e l’entusiasmo dei ragazzi più grandi, contenti di rivedersi dopo il periodo estivo, continua l’appello. Andrea è li e, pur con il suo ciuffo di capelli pieni di gel che gli danno un’aria da duro, appare timido e triste, in attesa di essere chiamato insieme a quei pochi altri ragazzi che attendono come lui. Ed ecco che il suo nome, chiamato ad alta voce, riecheggia per la prima volta nel salone di quella scuola. «Andrea, andrai nella sezione “F”», gli viene detto. D’altronde non poteva che essere così poiché quella era anche l’ultima sezione rimasta.

Andrea entra in classe e si ritrova con i ragazzi del suo stesso quartiere. Quelli che dal pomeriggio fino alla sera hanno per maestra la strada, con i suoi tanti rischi e pericoli. Quei ragazzi che spesso, a causa delle loro difficili situazioni familiari, sono abbandonati a sé stessi. «In fondo, poco male – pensa il ragazzo – . È come vedersi in strada. Vuol dire che staremo più tempo insieme».
Le chiamano “classi ghetto”. Sono formate in gran parte da ragazzi definiti “difficili” o provenienti da ambienti sociali molto umili. Queste classi così formate sono il risultato di un’opera di emarginazione (quanto essa sia volontaria o involontaria poco importa) da parte di chi avrebbe il dovere di assicurare ad ogni ragazzo il diritto ad una autentica crescita culturale e sociale. Chi opera in tal senso evidentemente non medita sulle conseguenze sociali che un tale comportamento può generare. E forse non pensa che la scuola ha il potere di incidere profondamente sui percorsi di vita di ciascuna persona che le viene affidata.
Tale comportamento discredita la scuola e getta fango su un’istituzione che non dovrebbe fare “differenze”.
E se a chi di dovere viene chiesta qualche spiegazione su tale comportamento, ci si accorge che a tutto c’è una giustificazione.

Intanto Andrea apprende dall’insegnante presente in classe che alcuni docenti ancora non sono stati nominati. E sì, perché i docenti titolari di cattedra già presenti nella stessa scuola, quelli, cioé, che possono garantire una certa continuità didattica, vengono assegnati alle altre classi, a quelle, per intenderci, formate da ragazzi i cui genitori ricoprono ruoli sociali e professionali rilevanti nell’ambito della comunità.
Ma la scuola non ha la responsabilità di tracciare percorsi culturali validi per tutti i suoi alunni che la frequentano e non solo per un certo numero di privilegiati?
Ma quando ci si libererà definitivamente di questi retaggi culturali feudali che ostacolano la crescita sociale e culturale di un intero territorio?

«E pensare che certe cose non dovrebbero mai verificarsi», pensa, intanto, mamma Giovanna mentre triste e delusa ritorna a casa.
Ma lei, che ha superato tante prove difficili nella vita, non è persona che si dà per vinta.
Mentre imbocca il vicolo che porta al suo povero quartiere, pieno di case abbandonate e con vetri rotti, pensa già a qualche possibile soluzione per sottrarre suo figlio ad un destino annunciato. E le ritorna in mente l’invito ricevuto qualche tempo fa da una sua parente di trasferirsi lontano dalla sua terra. «Lì – pensa Giovanna – forse mio figlio potrà crescere in maniera diversa. E’ un altro Paese, un altro ambiente. Bisognerà imparare un’altra lingua, ma per il mio bambino potrebbe essere una grande opportunità. Ci penserò…».

Intanto il tempo passa e Andrea esce da scuola. Come al solito lo accoglie la mamma con il suo sorriso di sempre che sa essere dolce e che sa volare alto sulle miserie degli altri.

Enzo Pappacena


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