Party girl è una riflessione sul rapporto incerto tra vita e rappresentazione. Al tempo stesso, riproponendo in forma originale alcuni postulati del cinema verità, la pellicola gioca sull’equilibrio precario e la commistione tra naturalismo documentario e fiction, due universi assunti come contigui, ma i cui confini risultano sfumati, instabili, sì da rimettere decisamente in discussione la loro separazione tradizionale. Nel film s’impone l’ambiguità: non sempre è agevole distinguere tra realtà e immaginario, tra verità e finzione; tra ciò che è recitato e ciò che è (ri)vissuto; tra quello che è frutto del lavoro di sceneggiatura e delle scelte di regia e quanto invece è improvvisato dagli attori.
A tutta prima, la storia appare ancorata a un approccio di taglio realistico e sociologico, memore della lezione d’impegno umanitario dei fratelli Dardenne, ma soprattutto della cifra espressiva del cinema di Cassavetes. L’attenzione è rivolta alla quotidianità mediocre e “banale” di personaggi marginali, di condizione sociale disagiata (le facce dei protagonisti, il loro modo di vestire, di gestire, il linguaggio che usano, ci dicono di una condizione proletaria prossima all’indigenza, a cui solo Samuel, il figlio di Angélique trasferitosi a Parigi, ha saputo sottrarsi), laddove lo scenario desolato in cui essi agiscono è colto con pochi tratti precisi, ma senza alcun compiacimento estetizzante (Angélique lavora come entraineuse in un night club, ma nulla ci viene concesso del glamour della vita notturna). E così, pur subordinando l’illustrazione del contesto ambientale alla vicinanza ai corpi e ai volti dei personaggi, tallonati da presso attraverso un uso insistito dei piani ravvicinati, la pellicola riesce a dare l’impressione della presenza concreta, tangibile, dei luoghi a cui le persone sono ancorate. Il paesaggio è lì, nel suo grigiore provinciale (siamo a Forbach, al confine tra Francia e Germania): autentico. Come autentica è la vicenda narrata, imbastita a partire dal vissuto dei personaggi: di Angélique, dei suoi figli, delle sue compagne di lavoro, dei loro clienti. Claire Burger, Marie Amachoucheli-Barsacq e Samuel Theis (quest’ultimo è proprio il figlio “arrivato” di Angélique) scelgono di restare rigorosamente fedeli ai fatti reali e ai volti delle persone che li hanno vissuti. Arrivano al punto di far reinterpretare i propri ruoli ai membri della famiglia Litzenburger, i quali recitano per altro con estrema naturalezza, così come gli altri attori, tutti non professionisti. L’assunto naturalistico si traduce altresì, sul piano espressivo, nell’adozione di una scrittura laconica, nervosa, disadorna, priva d’inutili orpelli. Gli stessi dialoghi, in parte improvvisati sul set, conferiscono al racconto un che di ruvido, di aspro, di non rifinito.
Allo stesso tempo però, la ricostruzione degli accadimenti si sviluppa secondo un’idea di drammatizzazione ancorata a un registro estetico ben diverso da quello “neutro” che si riconosce solitamente al cinema sociale. In Burger e compagni v’è la volontà di non rinunciare al piacere di elaborare il racconto in termini di finzione romanzesca, realizzando un trattamento creativo dei dati della realtà. L’intenzione è di superare i limiti del documento oggettivo attraverso l’assunzione di materiali tematici e stilistici riconducibili all’universo del melodramma. Se già in una pellicola come La guerra è dichiarata – un film anch’esso costruito su una precisa traccia autobiografica, dove l’autrice stessa e i suoi familiari erano chiamati a reinterpretare davanti alla macchina da presa una serie di esperienze di vita vissuta – Valérie Donzelli sceglieva di adottare i modi festosi, sbrigliati e spavaldi della commedia musicale per eludere i rischi del resoconto patetico (lì si parlava di un bambino, il figlio della cineasta, attaccato da un male implacabile), in maniera analoga il trio Burger, Amachoucheli-Barsacq e Theis evita la piattezza del documento sociale infiammando il racconto attraverso una serie di accensioni mélo. Il film darà allora voce all’urgenza dei sentimenti avvalendosi di scene madri d’intensa commozione (su tutte, la scena dell’incontro tra Angélique e Cynthia).
In Party girl al contrasto – tematico e valoriale – tra gli spazi della vita diurna e quelli della vita notturna si sovrappone un altro dualismo oppositivo: quello tra la normalità (dei rapporti familiari e di coppia) e la dissipazione libertina. Angélique ha vissuto un’esistenza selvaggia, disordinata (“Ero giovane. Mi davo parecchio da fare”, dice di sé per giustificare il fatto di ignorare chi sia il padre di Cynthia). Ora però la sua bellezza va sfiorendo e il suo potere di seduzione non è più quello di una volta. Questo ingenera in lei ansietà e insicurezza, paura della solitudine. L’avvenire si presenta incerto. Essa è tentata pertanto di accettare la proposta di matrimonio di Michel, un uomo gentile, premuroso, comprensivo, che potrebbe rappresentare per lei un punto di riferimento stabile a cui appoggiarsi. Il matrimonio le offrirebbe inoltre l’opportunità di dare un senso nuovo alla propria vita, e forse anche, chissà, di acquisire una più matura coscienza morale. L’amore materno, a cui la donna in passato si è negata, ora forse, per la prima volta, sembra poter entrare nel suo cuore, consentendole di ricucire i rapporti con i figli di cui si era a lungo disinteressata.
E però Angélique, con i suoi sessanta e passa anni, conserva ancora l’esuberanza sconsiderata e irresponsabile di un’adolescente immatura (“Mi stai parlando dell’amore come se tu avessi ancora quattordici anni”, le dice Samuel a cui lei aveva confidato i propri dubbi alla vigilia del matrimonio). L’accettazione rassegnata della quieta normalità borghese non le appartiene. L’idea di trascorrere le serate davanti alla televisione è per lei improponibile. Di fatto la donna si rivela incapace di spezzare in modo definitivo i ponti con il passato e di rinunciare per sempre alle emozioni della vita notturna. Sente ancora il bisogno di sedurre ed essere sedotta. Anche dopo che ha accettato di diventare la donna di Michel, non può impedirsi di darsi da fare con i giovanotti che le capitano a tiro. Nei suoi patetici tentativi di attirare l’attenzione degli uomini essa cerca ancora una conferma narcisistica delle proprie capacità di seduzione. Per contro, il sentimento di affettuosa riconoscenza che pur la lega a Michel – un uomo buono, di cui si fida, ma che non è il grande amore – non le impedisce di percepire il suo nuovo ruolo di sposa e di madre come una resa al grigiore di un’esistenza inerte e senza gioia.
Con la sua irrefrenabile energia vitale, e con i suoi momenti di cupo sconforto, che essa cerca di affogare nell’alcol, Angélique resta un personaggio fuori norma, debordante, imprevedibile, per molti versi elusivo; una figura sfaccettata e complessa, insieme seducente e scostante, un intricato groviglio di generosità e sconsiderata incoscienza, tale da suscitare nello spettatore le reazioni più contrastanti: dalla calda simpatia alla decisa ripulsa. Se nei rapporti con Michel la donna arriva a mostrare il peggio di se stessa, rimane pur sempre in lei qualcosa dell’eroina romantica incapace di scendere a compromessi con una realtà da lei percepita come avvilente. Angélique resta sino in fondo un personaggio fiero, deciso a difendere le proprie patetiche illusioni di felicità. “Non sono innamorata di te”, confesserà a Michel la notte stessa del matrimonio. “Non è quello che avevo immaginato”. Sono parole disarmanti, che provocheranno, com’è ovvio, la reazione stizzita di lui, che ora si sente ingannato, deriso. Ma sono parole che riassumono bene la scelta di una donna che ha deciso di non essere né saggia né ragionevole.
Nicola Rossello
Scheda film
Titolo: Party girl
Regia: Marie Amachoukeli, Claire Burger, Samuel Theis
Cast: Angélique Litzenburger, Joseph Bour, Mario Theis, Samuel Theis, Séverine Litzenburger, Cynthia Litzenburger
Durata: 95 minuti
Genere: Drammatico
Distribuzione: BIM Distribuzione
Uscita: 25 settembre 2014 (Roma e Milano) e 2 ottobre nelle altre città