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Timbuktu, il film di Abderrahmane Sissako

Timbuktu, un'immagine de film

Il film descrive la vita quotidiana a Timbuktu nei mesi in cui la città cadde nelle mani dei tagliagole islamici (dall’aprile del 2012 al gennaio dell’anno successivo), e lo fa adottando un impianto drammaturgico a mosaico che prevede una serie di rivoli narrativi secondari (l’invasata a cui è concesso, proprio a causa della sua follia, di mostrarsi senza velo per le strade; gli adolescenti che vengono pubblicamente frustati per essere stati sorpresi di notte a cantare e fare musica; la pescivendola costretta a mettere i guanti anche quando deve pulire il pesce; i bambini che mimano una partita di calcio senza la palla; i due adulti condannati alla lapidazione; il miliziano che costringe a un matrimonio forzato la ragazza di cui s’è invaghito) e una vicenda principale: la storia di Kidane, un allevatore tuareg che vive con la moglie e una figlia bambina in una tenda fuori dalla città: la sua quieta esistenza sarà sconvolta dopo che, nel corso di una lite, uccide accidentalmente un pescatore: arrestato dai jihadisti, dovrà affrontare i rigori della legge musulmana.

L’elemento di maggior interesse della pellicola va ricercato senz’altro nella visione inedita che ci viene offerta degli integralisti islamici: una visione che, pur adoprando verso gli stessi la sferza del ridicolo, mira a conti fatti a restituire loro una dimensione umana: non già bestie feroci, assetate di sangue, ma individui affabili, cortesi, talora un poco confusi, insicuri, afflitti da tormenti inconfessabili (Abdelkrim che fuma di nascosto da tutti, e che non riesce a mascherare il suo amore senza speranza per una donna sposata). Una visione che, inevitabilmente, presenta le sue ambiguità e i suoi lati oscuri.

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Da un lato, la bonarietà dei modi di quei figuri è la stessa che esibisce chi vive ormai da tempo in mezzo a noi, nelle nostre città, e frequenta le nostre scuole, i nostri uffici e negozi, mascherando attraverso le buone maniere l’odio che nutre in segreto verso tutto ciò che non è Islam (sotto quest’aspetto, il film di Abderrahmane Sissako è un’opportuna messa in guardia verso certe pratiche di simulazione e dissimulazione ipocrita). D’altro lato, la scelta della raffigurazione umanizzata dei tagliagole, pur nel rifiuto consapevole di certe semplificazioni infruttuose, corre il rischio di diventare un’operazione non priva di equivoci e malintesi, tale da indurci a leggere in modo scorretto le intenzioni del cineasta. Il rischio è che allo spettatore occidentale tornino alla memoria gli accenti di malcelato compiacimento con cui, in tempi nemmeno molto lontani, certo cinema italiano o tedesco, tendeva a guardare e a giudicare le sciagurate imprese dei terroristi di casa nostra.

Intendiamoci: in una pellicola come Timbuktu il rifiuto dell’ideologia jihadista è senza appello (vedi quel finale convulso e struggente, quasi un incubo smanioso che non trova conclusione). E nell’ironia stessa dello sguardo del regista – un’ironia amara, apparentemente svagata e distratta, che fa pensare a certe cose di Ioseliani o di Suleiman – si coglie un che di attonito, di dolente, di smarrito. Ma l’ansia di capire la violenza e l’orrore con cui Sissako si accosta al fanatismo islamico conserva qualcosa di ingenuo, così come ingenui, e destinati a restare inascoltati, sono gli appelli alla moderazione e alla ragionevolezza che l’iman locale rivolge ai tagliagole. Ogni interrogazione, ogni ricerca, nel film, non può che rimanere senza risposta. Il Male assoluto, soprattutto quando riveste i panni dell’oscurantismo religioso, non concede mai risposte né giustificazioni.

Nicola Rossello

Scheda film

Titolo: Timbuktu
Regia: Abderrahmane Sissako
Cast: Ibrahim Ahmed aka Pino, Toulou Kiki, Abel Jafri, Fatoumata Diawara, Hichem Yacoubi, Kettly Noël, Mehdi AG Mohamed, Layla Walet Mohamed, Mahmoud Cherif, Salem Dendou
Durata: 97 minuti
Genere: Drammatico
Distribuzione: Academy two
Uscita: 12 febbraio 2015

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