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Tra Lingua e Storia. Il primo Congresso degli Albanesi d’Italia

Girolamo De Rada ed ex Ginnasio Garopoli di Corigliano Calabro
Girolamo De Rada ed ex Ginnasio Garopoli di Corigliano Calabro

Ricorre, quest’anno, il 120° anniversario del Primo Congresso degli Albanesi in Italia. Esso – correva l’anno 1895 – fu un fatto rilevante, del quale variamente si occupò anche la stampa europea dell’epoca. Il dato linguistico, che, per essere il tema ufficiale dell’incontro, impegnò i congressisti in dotte riflessioni grammaticali e lessicali, alla fine, rivelò quello che era il vero motivo umano dell’appuntamento: ritrovare le memorie patrie e con esse muovere i primi passi sulla strada dell’affratellamento dei circa 200mila italo-albanesi della penisola.
Fu questa, certamente, la ragione prima, che tenne insieme, presso i locali del Ginnasio Garopoli di Corigliano Calabro (CS), offerti dall’Amministrazione comunale, dall’1 al 3 ottobre dell’anno 1895, i 25 congressisti ed, idealmente, le oltre 500 persone, gente comune ed anche illustre, che, da diverse località della Calabria, della Campania, della Puglia e della Sicilia, avevano dato la loro adesione alla originale iniziativa. Il Congresso, così, pensato per una puntualizzazione di alcuni aspetti tecnico-linguistici, che dovevano riguardare l’alfabeto ed una ipotesi di dizionario, divenne un’assemblea di uomini colti, che avevano necessità di stabilire un collegamento tra loro, di consolidare un rapporto con la madre-patria, di rileggere, soprattutto, la propria storia, per presentarla ai popoli d’Europa nelle sue connotazioni autentiche e, purtroppo, allora, mistificate.
Storicamente montanari, agricoltori e marinai, spinti alla diaspora dal bisogno e dall’incalzare dei Turchi, ora decidevano di ritrovarsi e di censirsi, dopo 400 anni dal loro arrivo nell’Italia meridionale, allora sotto il dominio aragonese. Essi si erano pacificamente integrati al tessuto locale, in tutte le stagioni, ma per nulla rinunziando al culto e alla lingua, all’abito e all’acconciatura degli avi. Bene contemperavano, insomma, la fedeltà alle origini e il rispetto al nuovo contesto.
Sugli Albanesi, purtroppo, ed essi ne erano consapevoli, pesava un giudizio per nulla esaltante, che li voleva, sì, originariamente uomini forti e soldati valorosi, ma pur sempre avventurieri ed arroganti, facili a menar le mani e ad usar la sciabola. Erano, invece, rudi senz’altro e gente di montagna, figli di pastori e di agricoltori, ma tutti consapevoli del loro essere popolo, con religione, lingua e tratti etnici e tradizioni propri; bravi, ad impiantare uliveti e vigneti in aree difficili; spinti alla diaspora non dal piacere del rischio, ma dal rifiuto di vivere nella propria terra, caduta in mano ai Turchi, nel corso del XV secolo.
Quell’assemblea, dunque, volle essere, nei promotori e nei partecipanti, il tentativo di sfatare, attraverso lo strumento dignitoso della cultura, la cupa leggenda che li contornava ancora del carattere di briganti e di vagabondi. Questo, almeno, il senso che a noi è piaciuto cogliere in quell’Assise e al quale ci dispone anche il rapporto familiare, che da tempo ormai lontano ci lega, a vario titolo, alle tante limitrofe comunità italo-albanesi. La lettura, d’altra parte, degli atti congressuali ci conforta nell’idea, soprattutto, quando rileviamo che il momento centrale del congresso è stata la seduta pomeridiana del 2 ottobre, allorquando si deliberò la fondazione di una Società Nazionale Albanese, della quale vennero eletti Presedente onorario Girolamo De Rada, Presidente effettivo Pietro Camodeca dei Coronei, Segretario Salvatore Liguori e d’essa si predispose lo Statuto in 10 articoli. Erano consapevoli i Congressisti che l’Assise, come spesso accade in circostanze del genere, potesse correre il rischio di esaurirsi nell’arco delle tre giornate, mentre c’era la necessità che essa superasse il contingente e facesse sentire i suoi effetti in maniera duratura. In questa prospettiva, la Fondazione doveva essere un Osservatorio permanente, che avrebbe curato la raccolta e la sistemazione di dati linguistici, storici e di costume. Con sede in S. Demetrio Corone (CS) avrebbe provveduto alla costanza di un Alfabeto unico, che il Congresso ritenne dovesse essere quello già adottato dal 1894 dal De Rada; alla compilazione di un Dizionario, alla quale operazione avrebbe, poi, materialmente atteso una speciale commissione di 14 membri; alla pubblicazione di una Rivista italo-albanese (Ili i arbresvet, La stella degli Albanesi, di cui fu Direttore Antonio Argondizza); all’apertura di relazioni con la madre-patria, da intraprendere, per intanto, con lo scambio di pubblicazioni di vario carattere.
Quando i congressisti sciolsero la loro adunata, erano consapevoli non solo dell’entusiasmo destato nelle popolazioni albanesi, essendo riusciti a rievocare i santi ricordi, ma anche d’essere entrati nel “patrimonio della storia”. Una Cattedra per l’insegnamento della lingua albanese, che essi chiedevano al Governo del Re, presso l’Istituto Orientale di Napoli, avrebbe facilitato l’attuazione del oro programma, fino a coinvolgere tutti i fratelli delle numerose Colonie d’Italia.
Oggi, a distanza di oltre un secolo, il contesto riguardante il mondo italo-albanese si è fortemente evoluto ed in termini positivi. Su di esso, e con perizia, si appunta l’attenzione degli ambienti accademici e degli studiosi locali e si moltiplicano, di conseguenza, la ricerca e le pubblicazioni. Testi di vario indirizzo e saggi, nonché riviste specializzate, testimoniano un fervore sincero ed intelligente. Risultano attive Cattedre di Lingua e Letteratura albanese nei Licei e, presso l’Università della Calabria, funziona un importante Centro di raccolta e di documentazione. Nel giugno del 1987, a Mannheim, un Convegno internazionale ha fatto il punto sulla storia e sulla cultura degli Albanesi d’Italia. Segnaliamo ancora le coraggiose iniziative della gloriosa Eparchia di Lungro, tendenti alla trasmissione della civiltà albanofona, mediante l’introduzione della lingua nella liturgia. Sempre più spesso, infine, i figli di quegli uomini accorti, ora nostri connazionali a pieno titolo, sono artisti di grande estro e professionisti di valore.
Sono il segno, i pochi elementi riferiti, che quel lontano primo Congresso del 1895, pur seguito da cadute e da slanci, nonché da dissensi e da ricomposizioni, vede, oggi, realizzate le sue intuizioni e le speranze.

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Giulio Iudicissa

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