Delle quattro fabbriche di liquirizia, i famosi conci, attivi a Corigliano, sin dal ‘600, l’ultimo, quello del Pendino, concluse il suo ciclo negli anni sessanta del 1900. Avevano prodotto dell’ottima roba, varia per gusto, ma sempre apprezzata e tale da imporsi sui maggiori mercati mondiali, senza alcun timore della concorrenza. La liquirizia coriglianese era stata, insomma, garanzia di qualità.
I conci portarono ricchezza ai proprietari, Saluzzo, Compagna, d’Alife, Sollazzi, e diedero lavoro a centinaia di persone, uomini, donne e ragazzi, di Corigliano e dell’intera provincia.
Certo, la fine del loro ciclo produttivo rappresentò un danno sul piano economico, pur tuttavia, non vanno dimenticate le condizioni di precarietà, in cui il lavoro veniva svolto. Lo sfruttamento era sistema e per la donna, poi, assumeva connotazioni ancora più gravi. Se all’uomo, infatti, veniva riconosciuta anche la qualifica di salariato mensile, alla donna ciò era negato, venendole corrisposte, quindi, le sole giornate effettivamente svolte. Anche nella retribuzione risultavano forti sperequazioni. Essa variava, sì, a seconda della mansione, ma mentre un operaio, il macchinista fochista, ad esempio, poteva pure arrivare a circa 100 lire al mese, una operaia, arrivava neanche alla metà. Alle donne non venivano, infine, riconosciute alcune piccole gratificazioni, una specie di mancia, come un po’ d’olio una volta al mese e qualche chilo di carne nel periodo di carnevale. Particolare non insignificante, se inquadrato nella generale povertà del tempo.
Oggi, in un contesto di emancipazione e di conquiste, pienamente realizzate, alcuni parametri di uno-due secoli fa sembrano appartenere ad epoche trapassate. Purtroppo, non è così, trattandosi di circostanze vissute anche dai nostri vicini avi. Perciò, quando si guarda al passato, lo si faccia con rispetto, ma anche con obbiettività.
Giulio Iudicissa