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Dal “serparo” di D’annunzio al “ciaravularo” di Corigliano Calabro

Pericolo, di Cesare Ripa, 1766V’è, a Corigliano Calabro, una nobile tradizione di medici illustri, che si distinguono nell’esercizio della difficile professione. D’essi si conserva memoria a partire dal diciassettesimo secolo, per gli studi compiuti e per le tecniche approntate. Questi, però, poco o nulla giovano al popolo, che non può, per ovvi motivi, fruire delle cure degli insigni specialisti.
Così, ancora nella prima metà del Novecento, la gente, in caso d’infermità, suole ricorrere a comari ed erboristi, a segretisti e ciaravulari. Colpa dell’ignoranza, ma, ancor più, della povertà.
Le cronache raccontano di figure particolari, uomini e donne, che, con rimedi e rituali tramandati da padre a figlio, esercitano la medicina popolare.
Tra tutte, per un insieme di originalità, primeggia la figura del ciaravularo e non perché questa appartenga esclusivamente al popolo coriglianese, ma perché, pur rintracciabile nel folclore regionale in genere, solo a Corigliano acquista una connotazione che in nessun altro sito si riscontra.

A Corigliano, dunque, c’è un ciaravularo. Al secolo Francesco Marino, egli era qui nato il 25 luglio del 1867 e qui era vissuto 83 anni, prima del decesso per “marasma senile e collasso cardiaco”. Dal padre, insieme ad un piccolo podere, aveva ereditato l’arcano potere di guarire i malcapitati morsi dalle vipere.
Un sibilo, impercettibile agli altri, lo avvertiva che qualcuno era nel bisogno e lui lasciava il lavoro, in campagna, per tornare in tutta fretta a casa, dove avrebbe curato con impacchi d’erba, preghiere e formule rituali il povero sfortunato in preda a febbre e dolori. Per tre giorni e tre notti, amici e parenti, con tamburelli, chitarre e canti popolari lo avrebbero aiutato a mantenere sveglio il paziente, fino a guarigione. Per la sua prestazione, il ciaravularo non avrebbe chiesto compenso, che, comunque, ci sarebbe stato, più come segno di gratitudine che come effettivo onorario. Figura strana, se si vuole, ma per nulla esuberante o guaritore a tutto campo. Egli non vive di quest’arte, né, girovago ed impostore come altri, spaccia, alla fine, rimedi per tutti i malanni, lucrando sulle altrui sventure. Il nostro non assomiglia a quei “vecchi rugosi dagli occhi di fiamma, come li descrive Cesare Mulè, che girano per le montagne e le fiere portando in scatole e cassettine vipere e serpi, alle quali è stato beninteso sottratto il veleno”. Provveduto d’una sua moralità, Francesco il ciaravularo sente come la consapevolezza di una missione, ricevuta dal padre.
Se un rapporto proprio si vuol trovare, forse, si potrebbe con l’austero serparo della “Fiaccola sotto il moggio” del D’Annunzio, che “nulla vede, non dimanda sorso d’acqua, né boccon di pane. Non fa soste alle soglie, poco parla, ha branca di nibbio e vista lunga”.
Figura insolita, ma non unica nei paesi d’un tempo. La ricerca paziente e l’interesse per gli antichi costumi potrebbe reperirne altre di non minore fascino, prima che il loro tenue ricordo s’involi insieme ai pochi anziani, che restano gli unici e malinconici custodi.

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Giulio Iudicissa

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