Al piano nobile di Palazzo Reale di Milano, dal 26 agosto al 15 novembre 2015, è aperta al pubblico la mostra La Grande Madre, a cura di Massimiliano Gioni.
In esposizione oltre 400 opere di 139 artiste, artisti, scrittori e registi internazionali insieme a documenti e ad altre testimonianze figurative – provenienti da una ventina di musei nel mondo, oltre che da fondazioni, archivi, collezioni private e gallerie.
L’allestimento, che copre 2.000 metri quadrati, è articolato in 29 sale e analizza l’iconografia e la rappresentazione della maternità nell’arte del Novecento, dalle avanguardie sino ai nostri giorni.
La Grande Madre è una mostra sul potere della donna: non solo sul potere generativo e creativo della madre, ma soprattutto sul potere negato alle donne e sul potere conquistato dalle donne nel corso del Novecento. Partendo dalla rappresentazione della maternità, l’esposizione si amplia per passare in rassegna un secolo di scontri e lotte tra emancipazione e tradizione, raccontando le trasformazioni della sessualità, dei generi e della percezione del corpo e dei suoi desideri.
La mostra si apre con una presentazione dell’archivio di Olga Fröbe-Kapteyn, che dagli anni Trenta ha raccolto per tutta la vita migliaia di immagini di idoli femminili, madri, matrone, veneri e divinità preistoriche confluite in una vasta collezione iconografica alla quale hanno attinto Carl Gustav Jung, Erich Neumann e molti altri psicologi e antropologi impegnati nelle ricerche sull’archetipo della grande madre e sulle culture matriarcali della preistoria.
Qualche decennio prima gli scritti di Sigmund Freud e le sue osservazioni sul complesso di Edipo avevano trasformato i rapporti familiari e le relazioni tra madri e figli in un dramma di desideri sessuali e tensioni represse che avrebbero segnato l’intero Novecento. Queste atmosfere ritornano trasfigurate nei disegni e nelle incisioni coeve di Alfred Kubin ed Edvard Munch. Nelle prime sale della mostra si alternano queste visioni allucinate all’immagine didascalica della maternità divulgata a fine Ottocento attraverso le fotografie di Gertrude Käsebier e i film della prima regista cinematografica donna Alice Guy-Blaché.
Un’importante sezione della mostra è incentrata sulla partecipazione delle donne alle avanguardie storiche e, in particolare, ai movimenti futurista, dadaista e surrealista. Giustapponendo il lavoro di artiste e artisti, l’esposizione mette in evidenza gli aspetti più contrastanti della modernità, analizzando le radicali trasformazioni dei ruoli sessuali che hanno accompagnato i profondi cambiamenti economici e sociali di inizio Novecento. Lo studio della posizione della donna all’interno del Futurismo – con opere di Benedetta, Umberto Boccioni, Giannina Censi, Valentine De Saint-Point, Mina Loy, Filippo Tommaso Marinetti, Marisa Mori, Regina, Rosa Rosà e altre – rivela lo scontro tra energie riformatrici e forze repressive nell’Italia di inizio secolo.
Le sale dedicate al Dadaismo raccontano la nascita del mito della donna meccanica e automatica – “la figlia nata senza madre” come la battezzò Francis Picabia – collocandola nel panorama sociale in rapidissimo mutamento degli anni Dieci e Venti, sia in Europa sia in America. Passando dalle macchine celibi di Marcel Duchamp, Picabia e Man Ray, alle bambole meccaniche di Sophie Taeuber-Arp, Emmy Hennings e Hannah Höch, fino alle performance irriverenti della Baronessa Elsa von Freytag-Loringhoven, la mostra descrive le relazioni pericolose che all’inizio del Novecento si intrecciarono tra biologia, meccanica e desiderio.
Il culto della donna nel Surrealismo è analizzato attraverso la straordinaria presentazione di cinquanta collage originali da La donna 100 teste di Max Ernst, esposti accanto a opere e documenti di André Breton, Hans Bellmer, Salvador Dalí e altri. Esplorando le implicazioni estetiche ed etiche della fascinazione surrealista nei confronti del femminile, la mostra porta in primo piano le opere di artiste che abbracciarono e al contempo rifiutarono la retorica del Surrealismo, all’interno del quale trovarono strumenti per l’emancipazione femminile, ma anche opprimenti stereotipi sessuali. Questa sezione include capolavori e opere celebri di Leonora Carrington, Frida Kahlo, Dora Maar, Lee Miller, Meret Oppenheim, Dorothea Tanning, Remedios Varo, Unica Zürn e altre artiste dell’epoca, la cui fama è stata a lungo oscurata da quella dei loro colleghi uomini.
Queste opere sono intrecciate a una selezione di scene madri del cinema muto e a documenti sulla politica delle nascite nel fascismo, a loro volta affiancati a immagini di madri addolorate e orgogliose eroine del cinema neo-realista. In questo album di famiglia corale, l’immagine della madre si sovrappone spesso all’idea di nazione e stato, creando preoccupanti associazioni tra corpi e patria.
La seconda parte della mostra ha come epicentro ideale una selezione di opere di Louise Bourgeois, che assimila l’influenza del Surrealismo e la trasforma mescolandola con riferimenti a culture arcaiche per creare una mitologia individuale di straordinaria forza simbolica.
Molte artiste che emergono negli anni Sessanta e Settanta – tra cui Magdalena Abakanowicz, Ida Applebroog, Lynda Benglis, Judy Chicago, Eva Hesse, Dorothy Iannone, Yayoi Kusama, Anna Maria Maiolino, Ana Mendieta, Marisa Merz, Annette Messager e altre – creano un nuovo vocabolario di forme in cui abbondano riferimenti biologici con i quali le artiste rivendicano la centralità del corpo femminile, spesso associandolo alle forze della natura e della terra.
Più o meno negli stessi anni – ai quali corrispondono le rivendicazioni dei movimenti femministi di cui verranno presentati vari documenti in mostra – artiste assai diverse tra loro come Carla Accardi, Joan Jonas, Mary Kelly, Yoko Ono, Martha Rosler, VALIE EXPORT e altre descrivono lo spazio domestico come un luogo di tensioni e soprusi, rimettendo in discussione la divisione del lavoro e dei ruoli sessuali negli ambienti della casa e della famiglia.
Gerarchie e rapporti di potere sono messi in crisi anche nelle opere di Sherrie Levine, Lee Lozano e Elaine Sturtevant che – in modi diversi – si oppongono alle tradizionali modalità di produzione e riproduzione. Attraverso copie e repliche o rifiutandosi del tutto di creare ex novo, queste artiste immaginano nuovi modelli di proprietà e nuove forme di possesso che si sottraggono all’autorità patriarcale.
Attraverso l’accostamento di immagini trovate e collage, Barbara Kruger, Ketty La Rocca, Suzanne Santoro e altre intraprendono una guerriglia semiotica che critica gli slogan e i messaggi dei media e decostruisce l’immagine della donna e della madre creata dai mezzi di comunicazione di massa.
Le opere di artiste diverse come Katharina Fritsch, Cindy Sherman, Rosemarie Trockel – attive dagli anni Ottanta – si rimpossessano della storia dell’arte, mescolando generi e riferimenti iconografici al tema della maternità e della pittura e scultura religiose.
Negli anni Novanta emergono varie artiste la cui opera è segnata da un’aggressiva semplicità. In una serie ormai leggendaria Rineke Dijkstra ritrae madri e figli a poche ore dal parto. Sarah Lucas compone sculture e bricolage dalle forme al contempo maschili e femminili. Catherine Opie documenta la vita e i desideri delle comunità gay e sadomaso di Los Angeles. Mentre pittrici assai diverse come Marlene Dumas e Nicole Eisenman rappresentano la maternità come croce e delizia, liberazione e condanna.
Pipilotti Rist mescola pittura barocca e videoclip in un’opera inedita che trasforma il soffitto di una sala di Palazzo Reale in un affresco elettronico, mentre Rachel Harrison documenta le apparizioni della Madonna in un sobborgo della provincia americana.
Dalle opere di Nathalie Djurberg, Robert Gober, Keith Edmier, Kiki Smith, Gillian Wearing e altri emerge una sensibilità post-umana in cui tecnologia e biologia aprono prospettive inedite attraverso le quali superare le vecchie distinzioni di genere. Arricchiscono il percorso molte installazioni importanti di Jeff Koons, Thomas Schütte, Nari Ward e opere di rilievo di Thomas Bayrle, Constantin Brancusi, Maurizio Cattelan, Lucio Fontana, Kara Walker. Nel suo celebre video Grosse Fatigue, vincitore del Leone d’Argento all’ultima Biennale di Venezia, Camille Henrot analizza i miti di creazione e la genesi dell’universo, raccontando così la nascita della Madre Terra.
Uno straordinario ciclo fotografico di Lennart Nilsson – il primo ad avere fotografato un feto in endoscopia in vivo – rappresenta la maternità in maniera iperrealista, trasformandola in uno spettacolo al limite della fantascienza.
Tra le opere più recenti anche la prima presentazione in Italia della celebre serie di ritratti delle Brown Sisters, realizzata da Nicholas Nixon scattando ogni anno per quarant’anni il ritratto di gruppo delle sorelle Brown.
Completa il percorso espositivo, in anteprima italiana, la performance Teaching to walk di Roman Ondák dedicata a un istante imprevedibile: i primi passi di un bambino. Sino al 15 novembre, ogni giorno una mamma e suo figlio saranno invitati a imparare a camminare nelle sale della mostra.
All’opera si ispira anche l’Instagram Call #TeachingToWalk: un invito a condividere i propri primi passi o quelli di chi amiamo per realizzare un grande album collettivo.
La Grande Madre è accompagnata da un catalogo pubblicato da Skira Editore.