È il personaggio all’estrema sinistra di Soir Bleu (1914) di Hopper, il famoso protettore: i baffetti, il cappello, un sorriso quasi beffardo, silenzioso, solitario, seduto in un angolo del locale. Finalmente di fronte a lui, losco ed avventuriero, vis à vis al Vittoriano durante la mostra di Hopper.
La prima volta, non ancora ventenne, lo incontrai a casa di un’amica, o meglio lei me lo mostrò su una foto del quadro. Bevevamo rum quella sera, lei parlava di Soir Bleu ed io ascoltavo. Raccontava come tutti i personaggi più che persone reali fossero delle vere e proprie caratterizzazioni collegate tra loro da attributi: le sigarette che pendevano dalle labbra senza alcuna traccia di fumo indicavano l’appartenenza all’ambiente bohème, mentre l’artista era il clown, il giocoliere, il folle, a suo agio nel gran mondo parigino, simboleggiato dai gentiluomini seduti sulla destra, ed anche nei bassi fondi oscuri dei “bravi” di quartiere.
Sarà stato il rum, ma quel losco protettore, che non aveva occhi ma delle macchie nere, ha letteralmente catturato il mio immaginario e dopo molti anni lo guardo dal vivo, ad altezza d’uomo, come lo ha dipinto l’artista.
Edward Hopper, infatti, è oggi a Roma. Una bella esposizione al Complesso del Vittoriano – Ala Brasini, visitabile fino al 12 febbraio 2017, con 60 capolavori realizzati tra il 1902 e il 1960, provenienti dal Whitney Museum di New York. Curata con intelligenza e rigore critico da Barbara Haskell in collaborazione con Luca Beatrice e organizzata da Arthemisia Group, la mostra presenta ritratti, paesaggi, disegni preparatori, incisioni, olii, acquerelli in modo da restituire una panoramica abbastanza completa della sua produzione e dell’evoluzione artistica.
Ecco i ritratti di donna, come Interno d’estate (1909), nel quale una fanciulla seduta su un lenzuolo lievemente poggiato sul pavimento, con le gambe piegate ad angolo ed il braccio in posizione di riposo, guarda verso il basso. Non possiamo scorgere il volto per via della capigliatura della ragazza, ma siamo attratti dalla scena, guardiamo dentro la stanza delimitata da una tenda sulla sinistra, incuriositi come voyeur. Hopper cerca forse questo effetto, alcune sue opere non sono concepibili senza l’osservatore, senza un ruolo preciso di chi guarda, come se fosse partecipe dell’opera. Il quadro fa parte del periodo giovanile dell’artista, ma sono già presenti temi che svilupperà nell’arco della sua ricerca, come il rapporto interno-esterno, qui rappresentato dal riflesso di luce, dipinto in modo vigoroso, pastoso sul pavimento della stanza.
In un’altra sala l’opera Mattina in South Carolina (1955) rappresenta in maniera più definita questa correlazione: una casa che occupa una porzione notevole del quadro, le imposte chiuse, sullo sfondo il paesaggio naturale e una donna sull’uscio che guarda verso lo spettatore.
È stata realizzata anche un’area dove i visitatori possono “entrare” in alcuni quadri; in Mattina ad esempio si può salire sopra un gradino e fotografarsi accanto alla donna così da far parte della rappresentazione pittorica. Un modo interattivo ed intelligente di pensare le mostre, ma che, se vogliamo, cela una operazione ancor più interessante, quella di completare la rappresentazione stessa con la presenza dello spettatore e di imprimere un collegamento tra realtà esterna dell’opera e realtà interna: non sono forse queste tematiche affrontate da Hopper?
Certi quadri te li porti dentro, ricompaiono spesso come flash nella memoria. Tra le sale della mostra al Vittoriano, guardando i paesaggi, le strade, le ferrovie, i ponti, le stazioni di benzina, ritornano i viaggi nelle fredde notti d’inverno sull’autostrada che tira verso Sud. La carreggiata vuota, la poggia, la nebbia, i tir che ci rallentavano, il caffè negli autogrill semi deserti per tenerci svegli. Le colonne di benzina erano ricoperte di bruma, con le illuminazioni al neon che creavano una sorta di alone quasi mistico, diffuso, avvolgente. Prendevo la reflex nel cofano: uno scatto fugace ci stava, buono come un caffè.
«Le solite stazioni di benzina – mi diceva il mio compagno di viaggio -, è quasi un vizio per te, non sei in America e sono passati gli anni Quaranta». «Aspetta – gli rispondevo -, ora ripartiamo, una foto non si nega a nessuno».
Cercavamo l’America, quella dei quadri di Hopper, delle foto di Walker Evans, la cercavamo nelle strade italiane, ci piaceva raccontare di aver fatto una roba alla Robert Frank. Oppure, con studiata calma al tavolo di un ristorante in lieta compagnia, ricordavamo di esserci fermati davanti a quella vecchia stazione dei treni in campagna: “una cosetta Hopperiana”.
Ora è tutto nelle sale romane, quell’America e quelle strade: c’è anche il disegno preparatore di Gas del 1940, che ritrae con gessetto e carboncino il celebre quadro di una stazione di benzina immersa nel paesaggio. Il bianco e nero del disegno accentua in maniera marcata i contorni degli elementi presenti, le colonne di benzina appaiono totem, dei simboli quasi religiosi. Come scrisse Aragon “hanno qualcosa delle divinità egizie o di quelle stirpi di cannibali che aspirano solo alla guerra”. Una sorta di idoli metallici che svettano nel paesaggio: nell’opera originale perfino l’uomo adibito a fare benzina si presenta come una specie di pastore, in gilet e cravatta.
I paesaggi di Hopper spesso mostrano uno stato di sospensione, di attesa di qualcosa, uno stato dove tutto sembra poter accadere o tutto è appena accaduto.
Altro tema trattato è il rapporto tra uomo e natura. In Passaggio della ferrovia (1922) c’è una strada che taglia la parte inferiore in diagonale e si vede la ferrovia che va nella direzione opposta. La casa del custode, tra pali di telegrafo che spuntano dai cespugli, ha le pareti dello stesso colore del terreno nella parte frontale e del bosco nella parte di dietro, come se l’opera dell’uomo coincidesse con la natura e si facesse essa stessa natura: anche il tetto ha lo stesso colore del cielo. Si scorge una piccola figura di donna, quasi una macchia scura di colore, minuscola se paragonata agli altri elementi ritratti, come a simboleggiare una predominanza tanto della natura che delle opere stesse, modificatrici del paesaggio ed insieme sue estensioni.
In mostra anche la Casa sulla ferrovia (1925), tipicamente americana e dallo stile vittoriano, silente, maestosa, come sospesa nel vuoto, perché non ne vediamo la base coperta da un binario che attraversa tutto l’orizzonte inferiore. La prospettiva è confusa, l’orizzonte coincide con i binari, i piani sono tutti lievemente inclinati e non si possono definire con certezza le dimensioni della casa, a causa del punto di osservazione scelto da Hopper. I piani inclinati e la rappresentazione dal basso verso l’alto conferiscono un’aurea di mistero ed insieme imponenza; lo stesso Hitchcock utilizzerà questo tipo di ripresa nel film Psyco, dove la casa utilizzata per girare le scene è simile a quella del quadro.
Riguardo al rapporto con il cinema, una sezione della mostra, con un supporto video a cura di Luca Beatrice, ne evidenzia le influenze e, nello stesso tempo, le correlazioni tra il pittore americano e molti registi che a lui si sono ispirati.
Infine le città ritratte, i rapporti con la periferia o i ponti, come quello in Manhattan Bridge che attraversa il quadro e finisce al di fuori di esso, ad evidenziare il collegamento con una ulteriore realtà esterna all’opera stessa.
Con l’ultima sala si lascia l’America ed un corridoio ti proietta fuori dal Vittoriano, direttamente a ridosso delle rovine della Roma imperiale. Quale contrasto tra pittura americana ed imponenza dei Fori romani, quale piacere sottile, accentuato dalla freschezza dell’aria della città eterna: in pochi minuti frullano emozioni e si viaggia nel tempo dell’arte. Solo questa città permette tutto questo; solo questa città, come un ponte di Hopper, ti fa attraversare il quadro e ti conduce in un altrove al di fuori del tempo, al di fuori dello spazio.
Diego Pirozzolo
@diegogen