I quadri di Linda De Zen sono ancora impacchettati, poggiati sul pavimento della galleria. Ne prendo due, li apro come fossero regali di compleanno. Devono essere sistemati e pronti per l’allestimento della mostra. La Galleria, dietro Piazza Navona, è tutta un caos di cavalletti, dipinti, colori, carta, fumo di sigaretta, profumi di centrifuga vitaminica, scalette per l’allestimento e si presenta con quella configurazione barocca, quasi naturale da queste parti, dove ogni cosa è una serpentina, una curva, un gioco irregolare, ma estremamente trasudante di arte.
Linda De Zen è giovane, gli occhi verdi penetranti, mi guarda un po’ impacciata, preoccupata come se fossi un medico e lei una paziente in attesa di diagnosi.
«Tranquilla – le dico – se non mi piacevano i tuoi quadri non sarei venuto qui. È un bel pomeriggio di primavera, ti pare?»
«Ok, hai ragione – mi risponde -. Parliamo un po’ e poi scappo al teatro, se il traffico di Roma sarà clemente con me».
È quel tratto che mi porta da te, quella linea sicura che si muove sulla tela, quel tuo modo essenziale di creare volumi leggeri, di accennare volti e particolari, senza alcun tipo di filtro razionale, scevri da ogni forma di compromesso estetico. Composizioni affascinanti in cui il soggetto viene trasfigurato; fai emergere ciò che rimane nascosto nel fondo dell’inconscio, ma c’è: è presente per chi sa guardare. Con poche linee non un’interpretazione, ma una traccia di realtà, di un profilo psicologico, di un’essenza più vera della visione sensibile e superficiale.
Nei miei ritratti io parto dall’individuo; i tre concetti su cui si basa il mio lavoro sono tempo, individuo e verità. Io non guardo mentre dipingo, cerco di osservare nella fase iniziale nel modo più intenso che si possa intendere con questo termine per essere vera. Ma in realtà dove sta la verità? Perché è più reale il fatto che con un tratto io definisco esattamente quello che sto vedendo, piuttosto che nell’osservazione continua del soggetto in fase di realizzazione del ritratto. I momenti che fanno tutto il mio lavoro sono i 40 secondi in cui io ti sto guardando e lì funziona tutto, nel senso che in quel tempo tu hai tutta la mia attenzione senza la mediazione del cervello, per arrivare ad una visione interiore.
Guardando il tuo autoritratto, ad esempio, sembra quasi una dichiarazione d’intenti, una definizione precisa di te stessa; una mano appena accennata copre il volto, mentre emerge con forza, quasi volesse farsi strada sulla tela e tra le linee, un pallino verde: il tuo occhio. In un certo senso quella mano che ti nasconde evidenzia una leggera timidezza o forse il pudore per essere guardata, ma nello stesso tempo l’occhio che si fa spazio è la necessità irreprimibile di vedere, di andare in profondità, di competere con la realtà visibile imponendo sulla tela il tuo dialogo muto ed intenso con chi guardi.
Il mio autoritratto è fatto così: cerco di evidenziare occhio e mano, con occhio intendo la mia interiorità e l’interiorità dello spettatore, senza dover filtrare con tutti i background di doversi conoscere, ti vedo e non ti vedo o ti vedo in un modo. Pensa che il ritrarmi ha risolto molti miei problemi: mi dà grande serenità. Al di là di che persona sarò, di cosa mi permetterà di mantenermi, questo è diventato il mio canale espressivo, mettermi gli occhi addosso e disegnarmi così.
Una cosa mi colpisce dei tuoi lavori: le linee non chiudono mai, come se l’opera non fosse completata. Tra una linea e l’altra si distende la tela. Uno spazio lasciato libero, forse per sottolineare l’evoluzione della persona, lasciando alle linee aperte la possibilità di non definire in maniera marcata ciò che un domani si modificherà. È una mia impressione, ma questi tratti interrotti sono così affascinanti… In alcuni compare il colore che riempie addirittura tutto lo spazio pittorico. Pennellate fluide, vigorose, quasi inquiete. Che succede qui, Linda?
Il processo è lo stesso con il colore, invece di avere la penna o la china, avevo un pennello abbastanza spesso, sentivo il bisogno di registrare qualcosa ed ho cominciato a dare delle pennellate. Nel ritratto ad una mia amica, le pennellate di colore rappresentano un po’ lo stato d’animo che avevamo la sera in cui l’ho dipinta; tutto è stato realizzato nell’immediatezza del momento che vivevo, solo il giallo è venuto dopo, in un secondo momento. In un’altra opera ho cominciato a passare il colore sulla tela, senza un soggetto specifico, mentre ascoltavo la canzone di De Andrè Giovanna D’Arco e dal colore sembrava proprio emergere la figura di Giovanna, come se fosse stata lei a scegliere me per diventare soggetto dell’opera. Il tratto a matita che definisce alcuni contorni del volto l’ho aggiunto dopo, ma buona parte del quadro è nata quasi come una rivelazione.
Ci lasciamo con il dipinto di un telefono, un modo per dire ci sentiamo per le foto del pezzo. Non so se sia più Matisse o più un’opera pop, se non addirittura un object trouvé surrealista, sicuramente è Linda ed è affascinante così.
Fuori dalla galleria a pochi passi da Piazza Navona c’è la chiesa di Sant’Andrea Della Valle, all’interno gli splendidi affreschi di Mattia Preti circondano l’altare maggiore. Passo da qui al termine della conversazione in galleria: dopo l’arte contemporanea si può chiudere la giornata con un po’ di pittura del 600. Mattia Preti a partire dal 1680 modificò il suo stile. I contorni dei volumi dei soggetti li dipinse servendosi prevalentemente di mezzi toni, privi di riflessi o particolari che ne amplificassero la nitidezza. Subordinò il dettaglio ad una ricerca di essenzialità, al desiderio di una pittura più spirituale. Non è il caso delle opere di Sant’Andrea della Valle, ma il pensiero corre a Linda, a come ha declinato questa sua intima esigenza di essenzialità. C’è un elemento di forte attrazione in quel suo gesto, nel modo in cui il pennello scorre sul foglio o la tela, in quell’automatismo che quasi richiama la scrittura automatica surrealista, andando oltre per l’intensità dello sguardo, per quell’attenzione istantanea che le permette di penetrare dentro le cose.
Linda mi parlava del duende di Garcia Lorca e devo ammettere che le sue opere sprigionano un’energia misteriosa impossibile da non avvertire, un fascino che non è sfuggito al sig. Paradiso, gallerista mecenate, con una grande esperienza alle spalle, frequentatore dei pittori che hanno scritto parte della storia dell’arte italiana del secondo Novecento, da Tano Festa a Schifano, Guttuso ed altri ancora. Un gallerista bohémien che non scende a compromessi ed apre le porte del suo studio solo quando è realmente convinto di avere artisti validi da presentare.
Riflessioni in movimento come gli occhi che si muovono lungo la serie degli affreschi di Mattia Preti nel presbiterio di Sant’Andrea della Valle, così teatrali ed imponenti, dietro una cupola che è un tripudio di angeli del Lanfranco per l’assunzione della Vergine.
Questi grandi del passato sono un autentico augurio per una giovanissima che inizia a muovere i primi passi, sperando di avere il duende: «Al di là di come andrà la mostra, mi auguro che i miei quadri possano regalare emozioni».
Dall’ 1 aprile 2017 presso la Galleria Sala Blu, via del Teatro della Pace, Roma.
Diego Pirozzolo