Happy End descrive un mondo in via di sparizione. Ci parla dell’eterna questione del finire delle cose: della morte fisica, individuale, che attende ogni uomo di là con gli anni, che sente avvicinarsi il momento della dipartita; e della rovina collettiva di una civiltà, la civiltà occidentale, i cui segni di disfacimento si fanno (almeno agli occhi del regista) sempre più palpabili ed evidenti. Una fine che i personaggi del film – i componenti di una famiglia altoborghese di Calais – scelgono di ignorare, quasi che, nella loro ilare incoscienza, essi non abbiano alcun sentore del futuro che li attende. Solo Georges, l’anziano patriarca, ed Eve, la nipotina adolescente, accettano di guardare la morte come una scadenza ineluttabile, e allora la cercano per sé con l’accanimento patetico di chi è ormai precipitato in una condizione di demenza senile, o decidono di darla agli altri, a quanti vanno conducendo un’esistenza lamentosa, senza gioia. Gli altri membri della dinastia Laurent non avvertono il respiro di decomposizione che si percepisce intorno a loro. Si illudono ancora di potersi tenere lontani dalla catastrofe. E così hanno deciso di ignorare l’altro da sé: i migranti di Calais che si aggirano nelle vicinanze della loro lussuosa dimora (la scena in cui una accolta di clandestini si presenta al loro cospetto durante un pranzo di gala è un autentico coup de théatre).
Il microcosmo familiare e borghese posto al centro del film è descritto da Michael Haneke come uno spazio lacerato, un luogo di paure, tensioni, nevrosi, che il rigido decoro domestico e di classe fatica ormai a mascherare. Anne si arrabatta come può per tenere in piedi l’azienda di famiglia, mentre il figlio Pierre si dà all’alcol, trascura il lavoro, afflitto com’è da un malsano torpore che gli impedisce di sollevarsi dalla sua prostrazione (v’è qualcosa di vile e abietto in lui, quando si rifiuta di denunciare il tipo che l’ha picchiato). Thomas, che ha appena avuto un bambino dalla sua seconda moglie, consuma con l’amante di turno un rapporto degradante. Intanto lungo le strade della città si muovono torme di indigenti…
Se sulla carta Happy End aveva tutti gli elementi per diventare un solido dramma familiare e borghese alla Strindberg, l’intento dell’autore era quello di svolgere un discorso al di sopra della contingenza dei fatti della cronaca contemporanea (il dramma dei migranti di Calais). Haneke non guarda ai problemi e alle figure del sociale, ai temi dell’attualità politica, ma alle questioni senza tempo, universali dell’agire umano. Un materiale tematico, da lui già affrontato in altre occasioni, e su cui ora torna a gettare il suo sguardo lucido e affilato, che si nutre di ghignante, sinistra ironia e di umorismo nero. Di primo acchito, la pellicola può sembrare poco lavorata, non curata. Di fatto essa è estremamente sorvegliata e costruita, sin nella scelta stessa di adottare un respiro narrativo antispettacolare duro e puro, a tratti provocatorio e respingente, tale comunque da disorientare lo spettatore. L’orchestrazione del racconto, negandosi alla consueta sintassi narrativa, è imbastita su una serie di frammenti brevi e dispersi, che non danno vita a un autentico sviluppo drammatico, a un climax di tensione, ma restano come sospesi a mezz’aria, sempre un passo indietro rispetto all’evento forte, la catastrofe, che sembra di poter presagire, ma che non avrà mai luogo. Le cadenze imprevedibili adottate dal regista non consentono al pubblico in sala di stabilire un rapporto di partecipazione emotiva con i personaggi. I quali, colti in momenti fugaci e ordinari e banali di vita quotidiana, sembrano muoversi tutti come a caso e in ordine sparso, senza che un qualche scopo certo possa giustificare il loro agire.
Nicola Rossello
Scheda film
Titolo: Happy End
Regia: Michael Haneke
Cast: Isabelle Huppert, Jean-Louis Trintignant, Mathieu Kassovitz, Toby Jones, Nabiha Akkari, Dominique Besnehard
Durata: 126 minuti
Genere: Drammatico
Distribuzione: Cinema
Data di uscita: 30 novembre 2017
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