Sei anni dopo Le nevi del Kilimangiaro, Robert Guédiguian sceglie di tornare alle proprie origini e al proprio cinema: un cinema squisitamente personale, con un’identità inconfondibile, fondato su motivi tematici e procedimenti espressivi insistiti, che aspira da sempre a proporsi come un discorso organico, capace di una densità etica e politica ormai inusuale; un cinema che abbiamo imparato a riconoscere e amare da un buon ventennio a questa parte: in Italia, dal 1997, quando Marius e Jeannette rivelò di botto alle nostre platee il talento singolare del regista marsigliese.
Guégiguian torna allora a filmare i paesaggi magici della sua giovinezza. L’intera pellicola, conservando l’unità spaziale, è girata nella calanca di Méjean, nei pressi di Marsiglia: un’inscenatura teatrale e naturale – un piccolo porto, le case dei pescatori abbarbicate sulle colline, e, in alto, il viadotto su cui corrono i treni -, minuscolo huis clos a cielo aperto, affacciato sull’orizzonte marino: un locus amoenus di incontaminata bellezza (benché minacciato dalla speculazione edilizia) e, insieme, l’isolato, ideale rifugio entro cui una piccola comunità solidale e proletaria ha continuato per generazioni intere a difendere la propria identità e la speranza in un mondo migliore. Chiamato a raccolta il gruppo consueto degli attori-amici (Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darroussin, Gérard Meilan, Jacques Boudet), Guédiguian ha inteso riproporre il consueto repertorio di situazioni, personaggi, snodi narrativi, coniugandoli nelle forme espressive a lui più congeniali, dove una certa durezza e cupezza amara, risentita, si contamina con squarci di salubre ironia e umorismo arguto, sì da consentire al racconto di aprirsi a coloriture di commedia lieve, distesa, rasserenante, talora anche gioiosa.
Se Guédiguian torna dunque alle radici del suo cinema, il suo nuovo film ci narra di un altro ritorno, quello di Angèle e Joseph che, dopo anni di lontananza, si ritrovano sui luoghi del loro passato al capezzale dell’anziano padre malato. Per entrambi, l’allontanamento dalla terra in cui erano cresciuti non è servito ad acquietare i loro tormenti. La donna, la cui bambina era annegata nelle acque del porto, non ha saputo perdonare il padre, da lei ritenuto responsabile di quella morte. Joseph si è imborghesito, lui a cui la parola “borghese” suona ancora come un insulto; ha assistito all’inaridirsi della sua vena creativa (nutriva ambizioni di scrittore che non si sono realizzate); e ora conduce stancamente una liaison con una donna assai più giovane di lui che appare decisa a mollarlo. Per entrambi – come pure per Armand, il terzo fratello, che aveva invece scelto di non lasciare il paese -, il ritorno alle origini si traduce in una quete affannosa ma necessaria. Per tutti si tratta di compiere un pellegrinaggio nel proprio passato – un passato che non è più, ma che non vuole morire – e di riflettere sulle speranze, le esitazioni, i sogni di quel tempo lontano. Solo in tal modo essi potranno meglio comprendere il loro presente, riconoscersi e ritrovarsi. Tutto questo attraverso una serie di incontri e scontri familiari dai toni talora molto accesi: un laborioso regolamento di conti che acquisterà ben presto le risonanze di una riflessione più vasta, politica ed esistenziale insieme.
Il racconto si costruisce dunque sul rapporto tra il presente e la memoria. Il passato è rimpianto più per quello che avrebbe potuto essere che per quello che è realmente stato. Se il ristorante paterno resta ancora nel ricordo dei tre fratelli il luogo degli ideali generosi della giovinezza, l’oasi serena della camaraderie e della complicità amicale e festosa, il groviglio di pene, tristezze, rimozioni, sensi di colpa, ferite mal cicatrizzate che i personaggi si trascinano da anni è là a negare ogni possibile mitizzazione del tempo perduto. Il presente però si presenta come qualcosa di peggiore, abitato com’è dalla desolazione, l’inerzia, la perdita, il lutto. L’oggi è il tempo della fine delle ideologie, delle illusioni rientrate, della mancanza di prospettive. La stagione dei grandi ideali, del sogno collettivo di costruire un futuro più giusto è svanita e forse non tornerà più. Al suo posto è subentrato un senso di vuoto, di spaesamento, di impotenza. I rapporti con le nuove generazioni si sono fatti più difficili (il confronto tra Joseph e la sua giovane amante è quello tra due persone che parlano lingue diverse). Su tutto impera la logica del denaro. Il mondo è cambiato, ma non come Angèle, Joseph e Armand avevano sognato che cambiasse. E tuttavia la consapevolezza della sconfitta non significa, per nessuno di loro, rinuncia, rassegnazione. L’immagine del padre inchiodato al letto da un male incurabile, lo spegnersi di un rapporto amoroso, la scelta di togliersi la vita di una anziana coppia di vicini di casa, diventano altrettante figure emblematiche della legge inesorabile del finire delle cose con cui ciascuno dei protagonisti del film – tutti prossimi alla senilità – sa di dover fare i conti.
L’accettazione della propria finitezza non impedirà ad Armand e ai suoi fratelli di ritrovare il senso antico di umana compassione verso i più deboli. Il gesto di solidarietà istintiva con cui accolgono, nascondendoli dalla polizia, i tre piccoli profughi africani, consentirà a ciascuno di loro di placare il proprio malessere e aprirsi di nuovo alla vita: Angèle accetterà di restare in paese e di accogliere l’amore di un giovane pescatore; Joseph, che ha deciso anch’egli di rimanere, potrà tornare a scrivere. Il film si chiude nel segno della speranza.
Nicola Rossello
Scheda film
Titolo: La casa sul mare
Regia: Robert Guédiguian
Cast: Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darroussin, Gérard Meylan, Anaïs Demoustier, Robinson Stévenin
Durata: 107 minuti
Genere: Drammatico
Distribuzione: Parthénos
Data di uscita: 12 aprile 2018
La casa sul mare – Guarda il trailer