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Addio mia regina, un film di Benoît Jacquot – Recensione

Addio mia regina

Con Sade (2000) e Dernier amour (2019), Addio alla regina (2012) costituisce una sorta di trilogia ideale attraverso cui Benoît Jacquot ha inteso riflettere sulla società del tardo Settecento e sul suo disfacimento: sull’agonia di un mondo logorato e stanco che egli ci restituisce con sguardo ruvido, talora sprezzante e impietoso, talora soffuso di una malinconia amara, dolorosa.

Il film copre un arco di tempo limitato (dall’annuncio della presa della Bastiglia, il 14 luglio del 1789, alla decisione del re di recarsi, senza scorta, a Parigi, il 17 luglio) e comprime il racconto all’interno di uno scenario chiuso, il castello di Versailles, dove l’eco talora distorta dei primissimi eventi della rivoluzione (che Jacquot lascia volutamente fuori campo) suscita tra i cortigiani e i valletti che popolano quella prigione dorata reazioni viepiù allarmate e sgomente.

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Jacquot non mira a realizzare un affresco d’epoca o a ricostruire una pagina di storia con acribia filologica e antiquaria. Il popolo e le ragioni della rivolta non trovano voce nel film. La stessa reggia di Versailles ci viene restituita non già nelle forme magniloquenti e oleografiche di tanto cinema pompier, ma come uno spazio degradato, laido, claustrofobico: un labirinto sotterraneo fatto di bui corridoi, cunicoli, cantine, anguste e disadorne mansarde in cui si agitano come anime in pena i membri della corte e della servitù. Nelle acque putride del canale che circonda il parco galleggiano topi morti.

Se Jacquot sceglie di raccontare il crollo della monarchia assoluta dal lato di Versailles, la sua testimone privilegiata è un personaggio umile, Sidonie, la giovane lettrice di Maria Antonietta. Come accade spesso nel cinema e in letteratura, la Grande Storia è anche qui narrata dal basso, attraverso lo sguardo di una figura marginale e d’invenzione.

Mentre fuori dalla reggia gli eventi precipitano e al suo interno il panico cresce progressivamente (in una confusa sarabanda di ordini e di contrordini, di decisioni di fuggire prese e poi revocate, aristocratici, dame di compagnia, domestici sono colti da un’agitazione isterica, da una frenesia angosciosa: di fronte ai segni sempre più minacciosi della catastrofe incombente, essi reagiscono abbandonandosi a gesti ora rabbiosi, ora meschini e vili, ora disperati, faticando non poco a conservare una qualche parvenza della loro antica dignità: solo l’anziano archivista del castello sembra mantenere una lucidità rassegnata e dolente), Sidonie, sorda di fronte a tutto ciò che accade intorno a lei, non pensa che a servire la propria regina, illudendosi di conquistarne la confidenza, di dividerne le pene.

Nel film si delinea una rete complessa e ambigua di relazioni affettive in cui alla cieca, appassionata devozione di Sidonie per Maria Antonietta corrisponde la fragilità e l’incoscienza della sovrana, che, brutalmente sottratta al tempo incantato dei suoi capricci e trastulli oziosi, e ancora ignara della gravità della situazione, è in ansia per la sorte dell’oggetto dei suoi desideri, la duchessa di Polignac, di cui la plebaglia inferocita reclama a gran voce la testa. E così anche la regina altera, volubile, sventata, frivola, si rivela una creatura vulnerabile e infelice e acquista una dimensione di figura tragica, la stessa a cui Sidonie non potrà non offrire il proprio affetto incondizionato. E così l’ossessione del desiderio, fissato su ciò che appare inavvicinabile, la sottomissione amorosa, lo spirito di sacrificio, come nella migliore tradizione mélo, trovano il loro alimento (e gli accenti più intensi e più persuasivi) nel motivo della frustrazione, della perdita, dell’abbandono.

Nicola Rossello

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