Nella produzione migliore di Christophe Honoré l’adesione alla maniera della Nouvelle Vague, i richiami evidenti e insistiti al cinema di Demy, Truffaut, Godard (in Les chansons d’amour la commistione tra i toni della commedia e quelli del dramma, il tema del ménage à trois, la celebrazione della Parigi della rive droite, gli inserti musicali finalizzati a dare voce alle emozioni e ai desideri dei personaggi…) assumono le forme di un omaggio affettuoso e reverente, di un’appropriazione giudiziosa (di uno spirito, uno stile, una grammatica, in cui Honoré riconosce le radici della propria scrittura), ma, al tempo stesso, di una rielaborazione critica, di un distanziamento. Honoré mira ad assimilare la spontaneità, la baldanza giovanile, la leggerezza dei nouvellisti. A tratti si ha quasi l’impressione che egli si sia imposto di realizzare un calco perfetto, una riproduzione rigida di un modello, lavorando senza nulla aggiungere e nulla modificare a un repertorio di temi, procedimenti narrativi, schemi figurativi già noti.
Di fatto, il metodo nell’affrontare la lingua ariosa e sbrigliata della Nouvelle Vague non è meramente riproduttivo, ma mira a sostenere un ragionato, personalissimo progetto espressivo in cui trovano voce l’indole e gli interessi dell’autore e la mentalità nuova del nostro tempo (l’illustrazione della vita sentimentale e sessuale dei giovani parigini di oggi; l’omosessualità rivendicata senza falsi pudori). La lezione di vitalità e libertà espressiva che emergeva dalle pellicole dei copains, a cui Honoré resta per tanti versi fedele, in un film come Les chansons d’amour non si esaurisce in un esercizio cinefiliaco fine a se stesso (rimandi, referenze, allusioni si dispongono qui come elementi funzionali alla struttura della pellicola), ma consentono al regista di individuare con forza e consapevolezza la strada di un manierismo d’alta scuola.
Suddiviso in tre capitoli distinti (“La partenza”, “L’assenza”, “Il ritorno”), Les chansons d’amour assume sulle prime i modi di una commedia amorosa lieve e pur velata di una malinconia amara e sottile (la bella scena del pranzo domenicale in casa dei genitori di Julie, forse la cosa migliore del film), per descrivere il triangolo sessuale tra un ragazzo (Ismael) e due ragazze (Julie e Alice), per tanti versi ancora fragili, confusi, immaturi, inutilmente alla ricerca di se stessi e pur determinati a mettersi in gioco in un incauto ménage à trois, dove per altro il disordine amoroso non sembra garantire un equilibrio reale alle loro esistenze (Julie, che pure ha avuto l’idea di accogliere Alice nel letto nuziale, fatica ormai a mascherare il proprio disagio).
L’irruzione della tragedia (la morte improvvisa di Julie a causa di un arresto cardiaco) precipita i personaggi nella desolazione. Inevitabilmente la pellicola devia verso un registro più grave, che però Honoré gestisce senza mai indulgere nel lacrimoso o nel patetico. Al lamento funebre succede, nei sopravvissuti, la necessità di elaborare il lutto. Ma se Alice non tarderà a tornare alla sua vita di un tempo, Ismael, incapace di condividere il suo dolore con gli altri, maschererà per qualche tempo lo smarrimento da cui è afflitto esibendo una sorta di attonito distacco, prima di ritrovare la forza di ritornare a vivere attraverso un amore nuovo, inatteso, per un adolescente più giovane di lui. La relazione “scandalosa” che egli stabilisce con Erwann costituisce il nucleo centrale del capitolo conclusivo del film, forse il meno convincente, quello in cui pare di cogliere, almeno a tratti, il rischio di una certa affettazione.
Nicola Rossello