L’intento della rassegna allestita negli spazi di Palazzo Blu a Pisa (aperta sino al 7 aprile 2024; curatore Matthew Affron; consulente scientifico Stefano Zuffi) è quello di avvicinare il visitatore alla stagione delle avanguardie storiche del primo Novecento attraverso un’attenta selezione di dipinti e sculture di indiscussa qualità provenienti dal Museum of Art di Philadelphia. Un godibile racconto per immagini di taglio divulgativo che, seguendo una cronologia precisa, consente al pubblico (anche al pubblico dei non specialisti) di saggiare la feconda e multiforme onda di rinnovamento che ha caratterizzato le ricerche dei grandi maestri dell’arte occidentale nei primi decenni del secolo scorso.
L’itinerario della mostra prende le mosse da un piccolo capolavoro: l’Autoritratto con tavolozza di Picasso, un quadro che, nella semplificazione dei volumi e delle forme e nell’impostazione austera della figura effigiata, intende richiamarsi alla nettezza e all’essenzialità espressiva della scultura africana e iberica preromana. Il giovane maestro spagnolo si presenta in un atteggiamento meditabondo, lo sguardo assorto, risoluto. È stato notato che egli tiene in mano la tavolozza, ma non il pennello, come a voler rendere evidente che, nell’esibire la propria identità di pittore, l’artista intenda qui rappresentare il momento ideativo del proprio lavoro. Il dipinto, del 1906, appartiene al periodo ocra di Gasol (l’anno successivo Picasso realizzerà Les demoiselles de Avignon, l’opera che, sconvolgendo le sorti della storia dell’arte, avrebbe sancito la nascita ufficiale della nuova lingua figurativa). Si avverte già il preannuncio delle ricerche dell’estetica cubista, rappresentate in mostra dall’Uomo con violino, sempre di Picasso, del 1911-1912, dalla Cesta di pesci, 1910, di Braque, dal Saint-Séverin, 1909, e dalla Tour Eiffel, 1925, di Delaunay, da L’ora del tè, 1911, di Metzinger, da Lampada, 1916, e da Scacchiera, bicchiere e piatto, 1917, di Gris, nonché da alcuni bronzi di Lipchitz.
A riassumere al meglio i caratteri peculiari della pittura di Matisse, a Pisa sono presenti due suoi quadri degli anni Venti, giocati essenzialmente sulla relazione tra forme, luce e colore, secondo il codice espressivo di tanta produzione parigina postimpressionista. Con Donna seduta in poltrona, 1920, il maestro francese si concentra sulle relazioni visive e la giustapposizione dei colori (il contrasto tra le accensioni cromatiche dell’arredo della stanza e la sottoveste bianca e le gambe nude della figura femminile). In Natura morta su un tavolo, del 1925, egli opta per una tranquilla ricerca degli effetti di luce in un dipinto che si distingue per l’eloquente rigore compositivo e il preziosismo dei dettagli.
In rassegna la pittura surrealista è rappresentata da lavori di Ernst (una Foresta, del 1923), Duchamp, Arp, Masson (Battaglia di galli, 1930), Dalì (Simbolo agnostico, 1932). Su tutti, spicca La tempesta (Paesaggio nero) di Tanguy, datato 1926. Qui, su un fondo uniformemente cupo, tenebroso, emerge un paesaggio onirico, brulicante di forme ibride, sinistre, entità spettrali che sembrano rimandare a quelle che popolano gli incubi più feroci di Bosch. Per contro, nel suo Cane che abbaia alla luna, del 1926, Mirò, ricorrendo a veloci note di un bianco festoso e smagliante per controbilanciare lo spartito dai toni scuri del paesaggio notturno, realizza una “sofisticata miscela di arguzia pittorica e astrazione” (Michael R. Taylor) che comunica al riguardante una sensazione di letizia. La stessa che si respira nel delizioso Prestigiatore, un’opera di Klee del 1927, o ancora nel Paesaggio animato di Léger del 1924, una composizione in cui si avvertono i richiami dell’allora imperante “ritorno all’ordine”.
Tra i brani più ragguardevoli della mostra, due quadri astratti: Cerchi in un cerchio di Kandinskij, un dipinto in cui differenti forme geometriche e armonie di colori si combinano secondo uno studiato, rigorosissimo schema compositivo (il quadro, adoperato come immagine promozionale della rassegna, è del 1923; un anno prima, Kandinskij, emarginato in patria dal regime sovietico, aveva lasciato definitivamente la Russia e si era trasferito a Weimar per insegnare al Bauhaus); e Composizione con giallo e blu di Mondrian, del 1932, e dunque del suo periodo neoplastico, quello più noto e familiare al grande pubblico: un’opera giocata sulla simmetria e l’equilibrio delle linee orizzontali e verticali, bianche e nere (Mondrian li definiva “non colori”) e di spessore diverso, che si intrecciano ad angolo retto delimitando talora campiture piene di un colore primario (il blu e il giallo, appunto).
Un mondo di idillica quiete, costruito su una tavolozza sontuosa e squillante è quello che emerge da Purim, 1916-1917, un dipinto di vivissima intensità, attraversato dalla malinconia del ricordo, dove Chagall evoca, in forma stilizzata, una Vitebsk magica, fiabesca, come uscita da un sogno infantile, e al contempo si riappropria della tradizione popolare e religiosa delle comunità ebraiche dell’Europa orientale. Più di vent’anni dopo, nel 1940, poco prima di lasciare la Francia e fuggire in America, egli realizza La crocifissione, un quadro di piccole dimensioni, ma di forte carica drammatica ed emotiva, quasi un urlo di dolore, in cui il richiamo alla realtà contemporanea è diretto ed esplicito. Il Cristo sulla croce, i cui fianchi sono cinti non dal consueto perizoma, ma da uno scialle di preghiera ebraico, è il popolo di Israele chiamato in quegli anni al martirio. Come altri artisti (Ernst, Mondrian, Man Ray, Duchamp, Dalì, Léger, Lipchitz…), Chagall ripara in America per fuggire gli orrori della guerra. Quando il conflitto avrà termine, nulla sarà più come prima. Parigi (l’Europa) avrà cessato di essere il centro pulsante della scena figurativa internazionale. Il suo ruolo sarà assunto da New York.
Nicola Rossello