Artemisia Gentileschi fu riconosciuta in vita come una pittrice di grande successo, vezzeggiata dai più potenti mecenati del tempo, dal granduca di Toscana a Francesco I d’Este, da Carlo I d’Inghilterra a Filippo IV di Spagna, a Luigi XIII di Francia. Dopo la sua morte, la sua fama è venuta progressivamente a oscurarsi nel corso dei secoli, per poi riesplodere clamorosamente negli ultimi decenni, da quando soprattutto si è voluto vedere in lei un’antesignana della causa femminista (“la grande pittrice della guerra dei sessi”, così l’ha definita Germaine Greer), e leggere i suoi dipinti – quelli in particolare popolati da eroine impavide, aggressive, “virili”, recuperate dalla storia antica e dai testi sacri – come simboli del riscatto femminile, emblemi della rivolta della donna contro la violenza maschile.
Si è assai discusso su quanto le dolorose vicende biografiche (Artemisia fu vittima di uno stupro, a cui seguì un umiliante processo) abbiano potuto influire sulla sua vita d’artista, e sulle tematiche da lei affrontate nei suoi quadri (ma l’iconografia della donna forte e guerriera aveva conosciuto già nel primo Seicento larghissima diffusione anche tra gli artisti maschi italiani e foresti, da Caravaggio a Rubens, da Orazio Gentileschi, il padre di Artemisia, a Simon Vouet, da Guido Reni a Guercino…). Il rischio è che l’attenzione verso la storia personale della pittrice non consenta di valutare appieno lo straordinario talento della donna artista. “È l’unica donna in Italia che abbia mai saputo cosa sia pittura e colore, e impasto, e simili essenzialità”, sentenziava a suo tempo Roberto Longhi, contrapponendo lo stile aggressivo e la potente espressività della Gentileschi alla peinture de femme delle sorelle Anguissola, di Lavinia Fontana, di Fede Galizia…
Di fatto, Artemisia fu donna artista capace di imporsi professionalmente in un contesto difficile – quello delle botteghe pittoriche italiane del tempo –, dominato in larghissima misura dagli uomini; una grande pittrice che, sulla scorta degli insegnamenti paterni, ha saputo emanciparsi da certe attardate stilizzazioni manieriste, per far emergere, attraverso il confronto con i principali orientamenti figurativi di quegli anni, un linguaggio suo proprio, autonomo, consapevole, moderno, in cui il classicismo di scuola bolognese del primo Seicento potesse convivere con i drammatici effetti di luce del realismo caravaggesco.
Costantino d’Orazio, il curatore della mostra attualmente in corso al Palazzo Ducale di Genova (visitabile sino al primo aprile 2024), ha inteso allestire un percorso espositivo che privilegiasse temi e confronti sulla cronologia delle opere. Egli ha operato inoltre significative scelte tra le dieci sezioni di cui la rassegna si compone. Una delle quali, ad esempio, è riservata alle protagoniste al femminile della scena pittorica italiana tra il Cinquecento e il Settecento, da Sofonisba Anguissola (suo un intenso Autoritratto alla spinetta proveniente da Capodimonte) a Rosalba Carriera.
Una diversa sezione, affidata alla curatela di Anna Orlando, si sofferma sul soggiorno genovese di Orazio Gentileschi. Invitato dal nobile Giovan Antonio Sauli, l’artista fu a Genova dal 1621 al 1624 e qui eseguì alcuni dei suoi dipinti di più alta qualità (tra i pochi conservati ancora nella città ligure – molti dei suoi lavori sono andati perduti o sono documentati in collezioni straniere – la splendida Annunciazione, oggi nella chiesa di San Siro). Un soggiorno, quello di Orazio, che, dando conto del nuovo clima figurativo che in quegli anni si andava respirando a Roma (la lingua rivoluzionaria di Caravaggio, temperata dall’atticismo di Reni e dei Carracci), esercitò una certa influenza sui pittori del territorio: su Strozzi, ad esempio (suo il bel San Giovanni Battista in mostra), o su Gioacchino Assereto, o su Domenico Fiasella, tra tutti, il più portato ad assorbire la visione caravaggesca.
Giustamente, la rassegna riserva una particolare attenzione al complesso rapporto di Artemisia con il padre. Artemisia, che in diverse occasioni fu modella di Orazio (la si può riconoscere in diversi lavori di quest’ultimo: Santa Cecilia alla spinetta con un Angelo, Ritratto di giovane donna come Sibilla…), compì il proprio apprendistato presso la bottega paterna, come allora era consuetudine per una ragazza che aspirasse a diventare pittrice. In Susanna e i vecchioni di Ponimersferlden, una tela giovanile del 1610, la prima opera della pittrice ritenuta certa, sono ben avvertibili – nella precisione e nitidezza del modellato, nell’accostamento dei colori – echi e connessioni con la maniera di Orazio, benché la carnale sensualità della figura femminile e l’intensità dei gesti lascino già presagire la piena maturità stilistica dell’artista. Illuminante il confronto con la Susanna e i vecchioni di Brno, opera della tarda maturità, realizzata a Napoli a quasi trent’anni di distanza. Qui la pittrice interpreta il soggetto secondo criteri ben diversi da quelli del dipinto del 1610. Il gesto della donna acquista un’enfasi teatrale melodrammatica. L’inserimento di un brano di paesaggio sullo sfondo e di un grande catino di peltro in primo piano, conferisce alla composizione un maggior equilibrio formale. Qualcuno ha voluto accostare il quadro al lessico stilistico di Bernardo Cavallino.
Nel corso del tempo tra la produzione di Artemisia e quella di Orazio emergono sostanziali differenze (benché diversi lavori dell’una e dell’altro presentino a tutt’oggi problemi di attribuzione…). Secondo certa letteratura specialistica, Orazio rappresenta, in una paradossale inversione delle parti, la versione edulcorata, addolcita, “femminea” della pittura di Caravaggio (di cui egli fu amico e collaboratore), laddove Artemisia ne recupera, facendole proprie, le istanze più “maschie”, virulente e tenebrose.
Si considerino le differenti versioni di Giuditta e Oloferne dell’uno e dell’altra, tutte in varia misura debitrici del capolavoro del Merisi conservato alla Galleria d’Arte Antica di Roma. Nel quadro di Artemisia di Capodimonte (non presente in mostra) la Gentileschi ricorre a note crude, grandguignolesche (gli schizzi di sangue, già presenti in Caravaggio), per accentuare l’intensità drammatica del soggetto, il suo atroce realismo. Elementi del tutto assenti nel dipinto di Orazio dei Musei Vaticani che illustra una scena successiva all’uccisione di Oloferne, quella in cui le due donne si apprestano a fuggire dall’accampamento nemico: una composizione in cui domina invece un pathos composto, rattenuto, intriso della sensibilità lirica propria dell’artista. Una bella replica della tela paterna è la Giuditta e la sua serva con la testa di Oloferne, proveniente dalla Fondazione Carit di Terni (è l’immagine simbolo della mostra). Si è notato come Artemisia miri qui a rimarcare il tema della solidarietà femminile tra due donne accomunate dalla medesima forza morale. Solo il contrasto tra il ricco abbigliamento di Giuditta e il più modesto abito di Abra tradisce la disparità di condizione sociale delle figure, descritte peraltro come coetanee (solitamente Abra viene raffigurata come una vecchia).
Al di là di certe forzature esegtiche, è sempre possibile cogliere in vari dipinti di Artemisia una singolare predilezione verso le eroine imponenti, sensuali, determinate, sicure di sé, capaci di dominare gli eventi e rovesciare il pregiudizio patriarcale che assegna alla donna il ruolo di creatura fragile e indifesa, bisognosa della protezione maschile: in mostra, accanto a una Betsabea al bagno proveniente dagli Uffizi, campeggia una Morte di Cleopatra di collezione privata: un’immagine in cui il corpo della regina d’Egitto, contenuto in un panno azzurro, sembra suggerire un’atmosfera di quieto languore. Quando poi la Gentileschi ritrae se stessa, si rappresenta al cavalletto, mentre dipinge il volto di un uomo, il suo amante fiorentino, e intanto ci rivolge uno sguardo fiero, di sfida: lo sguardo di una donna consapevole del proprio valore (Autoritratto in veste di pittura).
Gli stessi lavori di soggetto sacro di Artemisia conservano essi pure una loro potenza plastica. Si pensi alla bella Madonna con Bambino degli Uffizi, o alla Maddalena inedita, proveniente da Beirut, da poco restaurata dopo i danni patiti a causa della guerra. Ma si pensi soprattutto all’Annunciazione di Capodimonte, una grande tela di epoca tarda, dipinta durante il periodo napoletano dell’artista: un’opera che attesta – vedi lo sfondo scurissimo, squarciato da barbagli di luce, sul quale si stagliano le figure dell’Angelo e della Vergine – l’adesione alla particolare declinazione del tenebrismo caravaggesco praticato in quegli anni nella città partenopea.
Nicola Rossello