HomeIn primo pianoMoroni (1521–1580). Il ritratto del suo tempo - Mostra a Milano

Moroni (1521–1580). Il ritratto del suo tempo – Mostra a Milano

Giovan Battista Moroni, Ritratto di un podestà, 1560–1565, Bergamo, Accademia Carrara
Giovan Battista Moroni, Ritratto di un podestà, 1560–1565, Bergamo, Accademia Carrara

Ritrattista di straordinario talento, Giovan Battista Moroni (1521-1580) fu uno dei principali esponenti di quella cultura figurativa lombarda di inclinazione naturalista che, partendo da Lotto, arriva fino a Ceruti, e comprende anche Savoldo, Moretto, Ceresa, Fra Galgario: pittori tutti che, con i loro ritratti, anche quelli “ufficiali”, di rappresentanza, avevano inteso sottrarsi ai toni aulici e idealizzanti dell’allora imperante maniera veneziana, la stessa che aveva in Tiziano il suo sommo interprete, per conferire ai loro modelli un’inedita, emozionante forza espressiva, un’impressione di naturalezza, di schiettezza, di immediatezza, di verità. Il lucido e accattivante realismo documentario delle loro raffigurazioni comportava una penetrante introspezione psicologica e mirava a cogliere la dimensione umana del personaggio effigiato e, insieme, come attraverso uno scatto fotografico, la realtà viva, irripetibile dell’istante (una modalità di rappresentazione a cui, come notava Roberto Longhi, non fu estraneo lo stesso Caravaggio…).

Arturo Galansino e Simone Facchinetti, i curatori della bella rassegna attualmente in corso a Milano (visitabile sino al primo aprile 2024), hanno inteso dare il giusto risalto all’attività di Moroni come ritrattista, radunando nelle sale delle Gallerie d’Italia un buon numero dei suoi capolavori, alcuni dei quali sono posti a diretto confronto con tele di artisti coevi di area lombarda e veneta. Al tempo stesso essi hanno voluto concedere uno spazio adeguato alle immagini devozionali del maestro albinese, una produzione trascurata in passato dagli studiosi, ma che pure a partire da alcuni scritti di Giovanni Testori, che ravvisava in quelle opere accenti di umana partecipazione, la critica tende oggi a rivalutare.

- Advertisement -

Anche perché Moroni, assai attivo in tutta la sua carriera nelle scene a carattere religioso, lavorò per i Madruzzo a Trento negli anni in cui si svolgeva il Concilio (unica significativa trasferta dell’artista, che trascorse buona parte della sua esistenza tra la natia Albino e Bergamo – e Brescia, dove fu a bottega dal Moretto), e fu tra i primi pittori a fare propria l’esigenza di rinnovamento spirituale promossa dalla Controriforma e ad adeguarsi alle sue disposizioni in materia di immagini sacre. Le sue pale d’altare, dove nelle soluzioni compositive è talora assai forte il debito verso il Moretto (stringente, ad esempio, il rapporto tra il suo Matrimonio mistico di santa Caterina e la Pala Rovelli del maestro bresciano), sono animate da un’eloquenza sobria, composta, austera, da cui emerge una spiritualità profonda, che pur non si nega all’intensità emotiva. L’intento era quello di assicurare il coinvolgimento del fedele. La semplicità caldeggiata dalla chiesa post-tridentina trovava voce allora nelle cosiddette “orazioni mentali”, motivo pittorico praticato con una certa frequenza dal maestro (numerosi gli esempi in mostra). Altrove il pittore si muove nel solco della tradizione “alta”, rinascimentale: accanto al Polittico di san Bernardo, dove Moroni utilizza uno schema iconografico ormai desueto, ma ancora caro alle piccole comunità parrocchiali di provincia, al Crocifisso con i santi Bernardino da Siena e Antonio da Padova, uno dei vertici della fase tarda, con il vibrante trattamento preimpressionista del paesaggio sullo sfondo, al Cristo portacroce, all’Ultima cena, campeggia la Trinità di Albino, messa opportunamente a confronto con quella di Bergamo di Lorenzo Lotto: in entrambi i dipinti alle spalle del Cristo emerge la figura velata, in controluce, dell’Onnipotente.

È pur vero che Moroni, nelle sue prove a tema sacro, non raggiunse mai i risultati eccelsi di un Lotto, di un Moretto o di un Romanino. Egli fu soprattutto, come si diceva, un eccellente ritrattista, uno dei massimi esponenti del genere di tutti i tempi, e come tale è oggi riconosciuto e celebrato nel mondo. Un critico di grande levatura come Bernard Berenson arrivò persino a definirlo, esagerando, “l’unico ritrattista puro che l’Italia abbia mai avuto”. Anche Tiziano era ben consapevole del prodigioso talento del rivale, benché percepisse la distanza tra la maniera del pittore albinese e la propria. Si racconta che a un signorotto di provincia che gli chiedeva di fargli il ritratto, il maestro veneziano, che in quegli anni lavorava unicamente per papi, re e imperatori, abbia consigliato di rivolgersi a Moroni, che i ritratti li faceva “naturali” (ovvero, fedeli al vero, spogli di ogni paludamento e idealizzazione).

Nella fase della piena maturità, in particolare, gli anni Sessanta e Settanta del Cinquecento, quelli del suo ritiro ad Albino, Moroni era riuscito ad acquisire, nella ritrattistica, un linguaggio espressivo suo proprio, personale e inconfondibile. Egli era solito raffigurare i propri personaggi a grandezza naturale, spesso in piedi, altre volte seduti su una savonarola, contro uno sfondo semplice o in un interno grigio, disadorno, in modo da far convergere tutta l’attenzione dell’osservatore sull’effigiato. Il quale effigiato è colto talora mentre volge repentinamente la testa per gettare su di noi uno sguardo obliquo, interrogativo, come chi è sorpreso da qualcosa o qualcuno che, d’improvviso, abbia destato il suo interesse. Lo scintillante Cavaliere in rosa, uno dei suoi quadri più noti e giustamente celebrati per la sua calda tessitura cromatica rosso-corallo e la resa dell’incarnato del volto; Il cavaliere in nero, con la sua squisita sinfonia di grigi e neri dalle sfumature più differenti; il celeberrimo Sarto, altro vertice della ritrattistica del Rinascimento (fu utilizzato anche come immagine pubblicitaria nell’Inghilterra dell’Ottocento); Il ritratto di Pace Rivola Spini, di severa impaginazione compositiva; quello, un po’ inquietante, di Gabriel de la Cueva; quello di Michel de l’Hôspital, quello di Bernardo Spini …: sono tutti dipinti di singolare acume psicologico e spiccato naturalismo, carichi di energia dinamica e forza magnetica; opere che, eludendo la fissità della tradizionale soluzione frontale, sembrano volerci rivelare, del personaggio ritratto, qualcosa di intimo e di segreto: un’emozione, un moto dell’animo, un pensiero taciuto, un desiderio nascosto.

Altre volte (il Ritratto di Alessandro Vittoria, ispirato, parrebbe, a quello di Giulio Romano dipinto da Tiziano, il Ritratto di ventinovenne, il Ritratto di gentiluomo in pelliccia con cappello, il Ritratto di podestà, il Ritratto di ecclesiastico…) Moroni opta per l’inquadratura ravvicinata e la mezza figura, con il busto impostato di tre quarti e il fondo a tinte livide, uniformi. Una scelta che gli consente di conferire all’immagine un sentore più domestico e confidenziale. Queste sue composizioni sono realizzate in presa diretta, senza l’ausilio di studi preliminari all’esecuzione pittorica (a differenza dei suoi quadri a soggetto religioso, dove la mediazione disegnativa è invece frequente).

Abilissimo nella definizione dei dettagli, nella resa materica, “tattile”, delle stoffe, delle acconciature, dei gioielli (si pensi soprattutto ai suoi ritratti femminili, in particolare al Ritratto di donna con ventaglio, o ancora ai due ritratti della poetessa Isotta Brambati: realizzati, questi ultimi, in anni diversi, uno a mezzo busto, l’altro a figura piena, entrambi giocati su sapienti gradazioni di colori e sullo splendore abbagliante degli abiti, minuziosamente descritti), Moroni, nella fase più avanzata del suo percorso artistico, accantona le tonalità gelide, quasi smaltate, delle opere giovanili e lavora in genere su una gamma cromatica ridotta e severa, in cui predominano i neri, i bianchi, i bruni, i grigi. Si è parlato di un’estrema “maniera grigia” per i ritratti di piccolo formato dipinti a partire dagli anni Sessanta: un memorabile repertorio di immagini considerate da Longhi l’avvio della “pittura della realtà”, le stesse immagini che eserciteranno un’indubbia influenza sulla ritrattistica lombarda dei secoli a venire: su Ceresa, Fra Galgario, Ceruti, poi persino su Hayez e Molteni.

Nicola Rossello

MOSTRE

La Sapienza Università di Roma - Foto di Diego Pirozzolo
Fondazione Roma Sapienza, “Arte in luce” X edizione

LIBRI