Nata in Svizzera nel 1935, ma cresciuta nel Levante ligure, dove ha trascorso buona parte dell’attività artistica (lavorava a Cicagna, in Val Fontanabuona, dove è morta nel 2019), Bettina Defilla era conosciuta sino alla fine del secolo scorso per essere un’apprezzata ceramista, decoratrice e scultrice (in bronzo, creta, terracotta). Numerosi tuttavia erano stati, già negli anni Settanta e Ottanta, i ritratti da lei realizzati, in particolare quelli del figlio bambino e poi adolescente, immagini assai intense, che attestavano una consuetudine con il disegno e la figurazione tradizionale.
La rassegna attualmente in corso nella Galleria G. F. Grasso di Chiavari (visitabile sino al 14 aprile 2024) si concentra per contro sulla stagione conclusiva del percorso espressivo dell’artista, allorché la Defilla decide di prendere progressivamente le distanze dal figurativo e di accostarsi a una pittura sperimentale, estranea a ogni intento naturalistico, che rinunciasse a farsi rappresentazione della realtà fenomenica.
Ricorda Andrea Copello, il figlio della pittrice e curatore della mostra, nonché ceramista egli stesso: “Un giorno mia madre mi disse che aveva deciso di andare in pensione. Da quel momento avrebbe dipinto solo quello che le sarebbe piaciuto dipingere”. Bettina aveva deciso di avviare un itinerario di ricerca personale che nulla concedesse al mercato e alle mode.
Un passaggio, quello della Defilla alla poetica dell’Informale, che ha conosciuto, nel suo svolgimento, fasi distinte. V’è un primo momento di ricerca, che corrisponde grosso modo al decennio iniziale del nostro secolo, dove è possibile ravvisare persistenze figurative. Le composizioni di questo periodo sembrano conservare ancora una loro leggibilità. In due di esse, esposte in mostra, sagome minacciose di giganti pietrificati (in alto, si intravede l’orizzonte di un paesaggio marino), mura e torri di una città medievale danno corpo, attraverso biancori lunari e pennellate leggere, a uno scenario incantato.
Nei dipinti realizzati nel decennio successivo, accantonato ogni elemento descrittivo, i toni si fanno più crudi e drammatici. Ora predominano i neri intensi, i rossi turgidi e feroci, gli azzurri e i verdi torbidi. Lo spazio della tela più prossimo alla cornice è occupato talora da oscurità insidiose, rese attraverso cupe campiture cromatiche, entro cui si immettono densi aggruppamenti di colori più tenui, a suggerire sostanze vischiose, quasi incubi che faticano a riaffiorare dal buio della notte entro cui sono confinati: evocazioni fantasmatiche, attraversate a loro volta da solchi, incisioni, striature, filamenti sottili, segni minuti: labili lacerti di una scrittura misteriosamente allusiva, ideogrammi di una lingua primigenia, criptica, divenuta ormai indecifrabile. Immagini segnate da una forte carica espressiva, emozionale, a cui, non a caso, Bettina Defilla non ha mai voluto dare un titolo. Lei voleva che fosse l’osservatore a fornire un senso alla composizione interpretando a proprio piacimento i segni e gli agglomerati cromatici del dipinto.
Nicola Rossello