Non la Viareggio della modernità mondana e scintillante, il paradiso turistico dei ricchi vacanzieri cosmopoliti del primo Novecento, ma la Viareggio della Darsena vecchia, il quartiere dove la povera gente trascinava un’esistenza stentata: è questa la città in cui crebbe e si formò Lorenzo Viani (1882-1936). Suo padre, che lavorava nella villa ducale della famiglia Borbone, aveva perso l’impiego, e questo fece precipitare la famiglia nell’indigenza. Lorenzo fu messo allora a servizio come garzone in una bottega di barbiere e qui ebbe modo di conoscere tra i clienti che frequentavano il locale un artista di belle speranze: Plinio Nomellini. Fu proprio Nomellini a spingere il ragazzo a coltivare la sua passione per il disegno, inducendolo a iscriversi prima all’Istituto d’Arte di Lucca, poi all’Accademia di Firenze, dove teneva i suoi corsi Giovanni Fattori.
Ma Viani aveva maturato in sé un’indole insofferente e ribelle, che lo rendeva sordo a ogni disciplina accademica. Il linguaggio della macchia sostenuto dal maestro livornese era per lui lettera morta. Viani guardava piuttosto con speciale interesse alle esperienze postimpressionistiche che andavano maturando in quegli anni in Francia e nel resto dell’Europa.
La sua produzione si orienterà pertanto verso uno stile antinaturalistico, dissonante ed esasperato, in consonanza con le contemporanee elaborazioni dell’espressionismo italiano, di cui diventerà uno dei maggiori esponenti. Nelle sue composizioni Viani farà ricorso alla deformazione fisica delle figure, ricorrendo a una pennellata densa, pesante, e a una tavolozza essenziale, impostata su una gamma cromatica assai ridotta, giocata quasi esclusivamente sui neri intensi, i grigi sporchi, i bruni, i marroni. L’intento era quello di conferire alle immagini un senso di allucinata solitudine, di abbattimento, di turbamento angoscioso, prossimo alle atmosfere di Ensor o di Munch. Si pensi a L’ossesso, un’opera inquietante, di un’estrema crudezza, che destò all’epoca enorme scalpore e indignazione.
Oltre ai convincimenti libertari (che negli anni del dopoguerra evolveranno verso un progressivo avvicinamento al fascismo), Viani condivideva con Nomellini l’interesse per una pittura di forte vocazione sociale e umanitaria, impegnata a illustrare, in forme prive di qualsivoglia patetismo e commiserazione, le drammatiche condizioni di vita dei poveri e degli emarginati: un tema che trovava largo riscontro nella pittura (e nella letteratura) del tempo. In Viani il miserevole spettacolo delle quotidiane vicende degli ultimi si colora di una desolazione e di un fatalismo di sapore verghiano, che non escludono però la vicinanza affettiva, l’empatia profonda. Le figure emaciate e dolenti che popolano i suoi quadri sembrano esprimere una sorta di muta rassegnazione. Nei loro volti secchi e mesti, segnati dalla fame e dalla sofferenza, non c’è la dignità e la fierezza dei proletari in marcia di Pellizza da Volpedo. V’è piuttosto l’istintiva sottomissione a un destino amaro, senza speranza.
Nei dipinti esposti in questi giorni alla GAMC di Viareggio (la rassegna resterà aperta sino al 5 maggio 2024) questa cupa visione della condizione umana emerge pienamente. Si considerino in particolare Volto santo e Benedizione dei morti nel mare, due tele di grande formato, dove lugubri figure femminili, tutte ammantate di nero e disposte sulla scena una accanto all’altra come in un rilievo classico, compiono gesti rituali di una dolente liturgia popolare; o ancora Famiglia di poveri, dove la fissità dei personaggi e l’esangue materia cromatica conferiscono alla rappresentazione una struggente carica emozionale; o Carcerati, La preghiera del cieco, Le vedove del mare, Due figure in palude, altre immagini dove si coglie la capacità di Viani di rendere emblematiche le vicende degli umili: opere realizzate attraverso un linguaggio scabro, essenziale, di grande intensità espressiva, che induce lo spettatore all’identificazione.
La rassegna, che vuole ripercorrere l’intero arco creativo del maestro viareggino, accanto ai dipinti di maggior rilevanza, presenta alcuni paesaggi (Strada viareggina, una deliziosa opera giovanile resa con pennellate veloci e febbrili; S. Andrea); un nutrito gruppo di xilografie, le stesse che avevano suscitato l’ammirazione di D’Annunzio e di Boccioni; una serie di acquerelli e pastelli dedicati ai bambini della scuola (la moglie del pittore era maestra); nonché una Testa di pazza, l’unica scultura conosciuta di Viani, che qui si richiama ai modi di Medardo Rosso.
Ma ad accogliere il visitatore nella prima sala della mostra, c’è il capolavoro indiscusso della piena maturità dell’artista: Lavoratori del marmo in Versilia. Realizzata su commissione, questa tela monumentale risponde a un intento celebrativo, di glorificazione del lavoro (come in certo Sironi di quegli anni). Alle possenti figure dei buoi in primo piano (un omaggio al magistero di Fattori) e al gruppo – quasi un’icona sacra – della donna col bambino sulla destra del dipinto, corrisponde, sullo sfondo, il paesaggio aspro delle Alpi Apuane, restituito con tratti cubisti. Un’immagine celebrativa, si è detto, di straordinaria potenza espressiva, lontana dalla tragica visione dell’esistenza che dominava i lavori precedenti di Viani; un’opera in cui si respira, anche attraverso il recupero dell’iconografia cristiana tradizionale, la dimensione del sacro, il ricordo di una religiosità popolare e antica, ancora forte e viva.
Nicola Rossello