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Mostra sul Grand Tour a La Spezia

L’arte di viaggiare. L’Italia e il Grand Tour

“Non gli spiaceva l’idea di effettuare il suo grande viaggio…
Sapeva di essere ancora un ragazzo, ma dal viaggio sarebbe tornato uomo”.
(Edith Wharton, Falsa partenza)

Il Ritratto di Henry Peirce è un’immagine emblematica. Il gentiluomo è raffigurato in piedi, in una posa disinvolta, il cane al suo fianco che gli fa le feste. Alle sue spalle, sulla destra, spunta la celebre statua dell’Ares Ludovisi ad alludere all’amore per l’antico del personaggio effigiato, un giovane aristocratico britannico che aveva voluto essere ritratto durante il suo soggiorno romano. L’autore del quadro, il lucchese Pompeo Batoni, fu uno dei maggiori ritrattisti del Settecento, amato e vezzeggiato dai ricchi viaggiatori inglesi che nel corso del loro Grand Tour facevano sosta a Roma. Pare che Batoni non conoscesse una sola parola della loro lingua. Eppure egli seppe con i suoi dipinti intercettare le attese dei committenti, celebrarne il rango sociale e attestare altresì la serietà dei loro interessi culturali.

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La rassegna di La Spezia, attualmente in corso nelle sale del Museo Civico Amedeo Lia (visitabile sino al 27 ottobre 2024; curatore Andrea Marmori), si sofferma in particolare sulle ripercussioni che il Grand Tour ebbe sulla cultura figurativa italiana del tempo e individua tutta una produzione riconducibile a quel fenomeno.

Il “grande viaggio” in Italia, a cui si dedicavano i membri della gioventù dorata europea nel Settecento e nell’Ottocento (ma il suo periodo aureo è compreso tra il 1748, anno della pace di Westfalia, e il 1796, anno della discesa delle truppe napoleoniche nella Penisola), assunse assai presto i caratteri di una consuetudine irrinunciabile, un momento educativo e di formazione, che consentiva ai giovani rampolli delle classi privilegiate dell’intero continente di acquisire quel bagaglio di conoscenze ritenute allora necessarie per affrontare la vita adulta. Si scendeva nel Belpaese, accompagnati in genere da un precettore, per scoprire la dolcezza dei suoi paesaggi, ma soprattutto per ammirare de visu le opere d’arte e i monumenti dell’età classica.

L’affermarsi del neoclassicismo e il grande clamore che suscitarono in quegli anni i ritrovamenti delle rovine di Ercolano e Pompei, risvegliarono l’interesse per gli studi verso la storia di Roma e l’antichità. Si impose con forza un gusto nuovo, influenzato dalla memoria dell’antico, che potenziò la produzione e il mercato di calchi in gesso di celebri statue greche e romane (in mostra sono presenti copie dell’Atena Giustiniani e del Galata morente), bronzetti, vasi, coppe, biscuit, arredi e oggetti d’arte in stile pompeiano. Il danese Thorvaldsen, il grande rivale di Canova, fu il massimo interprete della severa ortodossia classicista propugnata nei suoi scritti da Winckelmann. Nella sua produzione scultorea l’attenzione all’antico, così come esso era inteso dalla moderna sensibilità neoclassica, non assume mai forme di archeologia nostalgica. La sua Ebe è un significativo esempio di opera d’arte contrassegnata dall’armonia e dalla purezza formale, che fa esplicito riferimento ai principi di “nobile semplicità” e “quieta grandezza” propri dell’estetica winckelmanniana.

La mostra assegna uno spazio privilegiato a quelle che furono in quegli anni le capitali del Grand Tour, le mete più ambite per qualunque viaggiatore colto che calasse in Italia: Venezia, Roma, Firenze, Napoli.

Venezia era la città del carnevale, ma anche un luogo unico, fiabesco, con i suoi splendidi palazzi che si ergevano come per incanto dal mare. Ed è a Venezia che la pittura di veduta, un genere sino ad allora considerato minore, acquista un largo sviluppo. Le vedute della città lagunare andavano incontro alle richieste dei facoltosi committenti stranieri che desideravano conservare una memoria dei luoghi visitati. Ma se i dipinti di Canaletto (Capriccio con torre ed edificio gotico in distanza sulla laguna) e di Bellotto (Veduta di piazza San Marco), i grandi maestri dell’analisi descrittiva e della precisione topografica, miravano, attraverso il loro nitore ottico, alla riproduzione fedele, “documentaria”, degli scorci più significativi della città, i quadri di Francesco Guardi, l’altro grande vedutista veneziano del Settecento, optavano piuttosto per una pittura atmosferica, intrisa di sensibilità lirica, preromantica: una pittura dalle tonalità terrose, che dei luoghi e degli edifici restituisse le atmosfere sfuggenti e di sottile malinconia, i segni di un declino lento, ormai inarrestabile (Il Canal Grande con la Chiesa di San Luca).

Roma era città carica di passato remoto e di storia, dove la passione per l’antico trovava alimento nelle maestose rovine e nei monumenti barocchi, testimonianza di una civiltà ormai perduta. A Roma frotte di pittori di ogni paese si davano a dipingere celebri edifici, ruderi, antichità. Accanto alle fedeli vedute prospettiche di Gaspar van Wittel (Veduta della piazza del Quirinale, Via di Porta Pinciana), di fatto l’iniziatore in Italia di questo genere pittorico, si fa strada, grazie soprattutto alla copiosa produzione del piacentino Giovanni Paolo Pannini, un filone nuovo, che incontrò in quegli anni un’enorme fortuna: il capriccio architettonico, ovvero un paesaggio ideale in cui venivano accostati in modo arbitrario edifici autentici e altri di pura invenzione, o monumenti reali, ma tra loro assai distanti. Erano quadri, quelli di Pannini, in cui la ricerca del pittoresco assecondava il rimpianto di un passato glorioso che non esisteva più (Capriccio con il Colosseo).

A fare di Firenze una tappa imprescindibile per il viaggiatore colto erano innanzi tutto le sue straordinarie collezioni di opere d’arte, quella degli Uffizi in particolare, dove erano custoditi i capolavori dei maestri del Rinascimento. E poi c’erano le chiese, i palazzi, i paesaggi ameni della città e dei suoi dintorni (in mostra una veduta dell’Arno a Ponte Vecchio verso Ponte delle Grazie di Giovanni Signorini, il padre di Telemaco Signorini).

Napoli divenne una delle mete d’obbligo del Grand Tour soprattutto dopo le scoperte archeologiche di Ercolano e Pompei. Vero è che i turisti vi accorrevano anche perché ammaliati dalla lussureggiante costiera partenopea e dallo spettacolo del Vesuvio in eruzione, lo stesso che spingeva i viaggiatori forestieri a inerpicarsi lungo le pendici del vulcano per assistere da vicino a quel drammatico evento. L’immagine dell’eruzione del Vesuvio fu per tutto il Settecento e l’Ottocento un soggetto assai frequentato dai paesisti. Allo stesso modo, il fascino del golfo di Napoli fu celebrato nel primo Ottocento dai pittori della cosiddetta scuola di Posillipo, i cui maggiori esponenti, dall’olandese Pitloo a Giacinto Gigante (ma lo stesso De Nittis ne fu influenzato nelle fasi iniziali della sua carriera), si impegnarono in una pittura en plein air tesa a offrire una lettura lirica, emozionale dei luoghi rappresentati (in mostra alcuni lavori a penna e inchiostri di Ercole Gigante).

Nicola Rossello

MOSTRE

La Sapienza Università di Roma - Foto di Diego Pirozzolo
Fondazione Roma Sapienza, “Arte in luce” X edizione

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