È un’immagine di grande potenza, carica di una cupa, rovente intensità. Il senso di angoscia che ci trasmette è qualcosa a cui è ben difficile sottrarsi. L’urlo è in qualche misura l’emblema di un dolore cosmico, universale. “Grido di spavento davanti alla natura”, così lo definì Strindberg, che di Edvard Munch fu amico ed estimatore. Il protagonista del dipinto è un essere dalle fattezze deformi e con il volto di un teschio, che, portando le mani alle orecchie, pare volersi difendere dall’urlo terrifico e infinito che sembra provenire dal paesaggio circostante. Forse è l’uomo dei nostri giorni, divorato dalla paura di vivere. Forse è l’artista stesso, il quale, a differenza di quanti “passano e non guardano” (le due figure sullo sfondo), è preda di ansie e tormenti interiori a cui non sa dare risposta. E allora l’urlo che emerge dalla tela è forse proprio il suo, del personaggio: un urlo di disperazione.
Del capolavoro di Munch, uno dei massimi raggiungimenti dell’arte universale, si conoscono varie versioni. La rassegna in corso a Palazzo Reale a Milano (aperta fino al 26 gennaio 2025; curata da Patricia Berman in collaborazione con Costantino D’Orazio per il supporto nella redazione dei testi di approfondimento in mostra) presenta la versione litografica monocromatica che riproduce, senza alterazioni di rilievo, il dipinto originale del 1895, conservato al Munchmuseet di Oslo, e inamovibile.
Anche in altre occasioni Munch ha inteso dare un volto alla condizione di smarrimento in cui sembra essere precipitato l’uomo del nostro tempo. In Disperazione, in particolare, un’opera strettamente imparentata con L’urlo, ritroviamo il medesimo paesaggio infuocato (il ponte, il cielo striato di sangue, il mare di un azzurro livido che vira al nero), gli stessi violenti e allucinati timbri cromatici, la stessa coppia di comprimari sullo sfondo, che si allontanano, indifferenti allo sconforto che sembra divorare la figura in primo piano. Una figura che Munch ci restituisce di profilo, cogliendola nel momento in cui al grido di angoscia succede la muta e desolata rassegnazione.
In altre opere di Munch la sofferenza assume le forme di una solitudine devastante. Sono dipinti in cui i richiami alle dolorose vicende personali dell’artista si fanno stringenti. In Malinconia la figura di Laura, la sorella del pittore che sin dall’adolescenza soffriva di gravi disturbi psichici, è collocata in un interno claustrofobico, quasi uno spazio scenico adibito a rappresentare l’angoscia e la follia. In Viandante notturno l’immagine che Munch offre di sé è quella di un individuo in preda ai propri fantasmi notturni, che si muove inquieto in un luogo chiuso, restituito attraverso tinte sorde, che riflettono lo stato d’animo del personaggio. In Autoritratto tra il letto e l’orologio, uno dei suoi ultimi dipinti, l’artista si ritrae come un uomo vecchio e stanco, lo sguardo fisso in avanti, le braccia penzoloni. È in una stanza attraversata da una luce quasi accecante, dove gli oggetti acquistano chiare implicazioni simboliche: la pendola priva di lancette e la branda alludono al tempo perduto e all’approssimarsi della morte. Alle spalle del personaggio, appesi alla parete, i quadri dell’artista: le opere di una vita ormai vicina alla fine.
Il malessere che emanano i quadri di Munch è quello che abita in lui stesso. La sua fosca visione dell’esistenza, i toni cupi, intrisi di una tensione insostenibile di molti suoi dipinti, sono lo strascico delle tristi vicende familiari che hanno segnato la sua vita sin dagli anni della fanciullezza (“Nella mia casa d’infanzia abitavano malattia e morte. Non ho mai superato l’infelicità di allora”). La morte della madre, poi quella dell’amatissima sorella Sophie, uccise entrambe dalla tubercolosi; la malattia mentale a cui andava soggetta l’altra sorella, Laura: sono eventi su cui Munch tornerà a più riprese nelle sue opere.
Accanto alla Bambina malata (in mostra è presente una variante litografica a colori del dipinto), a Milano si possono ammirare La morte e la primavera, una tela giocata sul contrasto tra il paesaggio verdeggiante che si intravede dalla finestra e il viola slavato del letto su cui è distesa la figura inanimata (e si pensa subito al Carducci di Pianto antico…); Lotta contro la morte, dove i personaggi allucinati, quasi spettrali, hanno la fissità inquietante delle maschere di Ensor; ma soprattutto La morte nella camera della malata, uno dei capolavori dell’artista. Qui Munch, a distanza di anni, torna a parlarci dell’agonia della sorella Sophie. Nel dipinto, accanto alla malata, che è adagiata su una grande poltrona di vimini e rivolta verso il muro (di lei intravediamo solo un braccio), sono presenti tutti i familiari, ciascuno chiuso nel proprio muto dolore. È un’opera che comunica un senso di desolazione e di sgomento.
Accanto ai lutti familiari, gli amori difficili, infelici. La morte di Marat rievoca a distanza di tempo il drammatico episodio della fine della relazione tra il pittore e Tulla Larsen (nel corso di un litigio era partito un colpo di pistola che aveva ferito Munch a una mano). La donna è in piedi, nuda, e ha la postura rigida, feroce e imperturbabile di un idolo pagano. Alle sue spalle c’è l’uomo, riverso su un letto inzuppato di sangue. È una composizione sconvolgente, che riassume il furore misogino che attraversa taluni dipinti del maestro (Vampiro, Madonna, Vampiro nella foresta, Assassinio, Gelosia…). Un’ossessione misogina (la donna percepita come elemento distruttivo, la sessualità come minaccia) che ricorda assai da vicino il tormentato rapporto con il femminile che emerge dai drammi di Strindberg.
Vi è poi un Munch meno noto al grande pubblico, e meno inquietante, che sembra aprirsi a una visione più pacata dell’esistenza, e proprio per questo ricorre a una tavolozza meno cruda, più morbida e ariosa. È il Munch del delizioso Le ragazze sul ponte, dove si respira un senso di quieta leggerezza e freschezza (è l’immagine guida della mostra), o di Notte stellata, Muro di casa al chiaro di luna, Il falciatore, La storia, Inverno a Kragerø. Il Munch che celebra la luce salvifica del sole (Il sole) e l’immersione gioiosa nella natura (la serie degli Uomini che fanno il bagno).
Anche in questi dipinti l’uso del colore diviene uno strumento espressivo che mira a dare libera voce al mondo interiore dell’artista, alle sue emozioni e pulsioni più profonde. Di fatto, anche qui Munch, recuperando alcune indicazioni del postimpressionismo (del sintetismo di Gauguin, in particolare), si pone a capofila delle sperimentazioni del nascente movimento espressionista. Gli audaci e inusuali accostamenti cromatici con cui Munch costruisce le sue composizioni (dove al disegno è assegnato un ruolo marginale, trascurabile), così come il ripudio del naturalismo descrittivo (personaggi, ambienti, oggetti, sono ricostruiti sulla tela attraverso uno sguardo soggettivo, emozionale), apriranno nuove possibilità al linguaggio pittorico del Novecento.
Nicola Rossello