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“Climax”, un film di Gaspar Noé – Recensione

Locandina del film "Climax"

Nel prologo del film una televisione piazzata al centro dell’inquadratura riproduce spezzoni di interviste in cui i protagonisti della pellicola – un gruppo di ballerini alle prime armi – si presentano e ci confidano la loro passione per la danza, le loro aspirazioni e paure. Ai lati del televisore una pila di libri e di cassette VHS con i titoli in bell’evidenza. Gaspar Noé definisce sin da subito le coordinate estetiche del proprio cinema, esibendo le sue predilezioni, i punti di riferimento primari del suo lavoro. Bataille e Nietzsche, Pasolini (Salò) e Fassbinder (Querelle de Brest), Lynch (Eraserhead) e Zulawski (Possession), Eustache (La maman et la putain) e Ken Russell (Stati di allucinazione), Argento (Suspiria) e Romero (Zombie)… “Sono i film e i libri che fanno parte del mio universo… quelli che mi hanno condizionato, se non influenzato”, dichiara. Un inventario significativo che testimonia del favore accordato a un cinema viscerale, eversivo, iconoclasta, un cinema che si accorda pienamente con gli estri e le ambizioni di Noé, e di Climax in particolare.

Costruito nel rispetto delle classiche unità di luogo e di tempo (un edificio in disuso, isolato nei pressi di una foresta innevata; la notte che una compagnia di ballerini di street dance consuma festeggiando tra bicchieri di sangria l’ultimo giorno di prove di uno spettacolo di danza), Climax si compone di due parti ben distinte.

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La prima parte – la scena del ballo corale – racchiude un quarto d’ora di armonia pura, di sensualità ed euforia dionisiaca: una performance di straordinaria densità visiva e ritmica, che Noé filma con un piano-sequenza prolungato, alternando riprese dall’alto a inquadrature ravvicinate sui corpi dei ballerini, a cui la macchina da presa sembra aderire come una seconda pelle, accompagnandoli nelle loro fluide, studiate traiettorie, tese a disegnare figure geometriche rigorose (il richiamo che qualcuno ha fatto con le perfette composizioni delle coreografie di Busby Berkeley non è impertinente).

Finite le prove, il party notturno ha inizio, ma presto la festa volge al peggio. Da questo momento il film cambia radicalmente di tono. All’eleganza sorvegliata e alla disciplina esatta dei passi di danza subentrano la convulsione visiva, la disarmonia disturbante, il delirio. Qualcuno ha versato della droga nella sangria, e così i ballerini, in preda a uno stato di alterazione psichica, si abbandonano a gesti insensati di disperazione e violenza. La situazione precipita nell’isteria collettiva, assumendo le forme di un furente gioco al massacro. Il paesaggio che si presenta il giorno dopo alla polizia giunta sul luogo è un paesaggio devastato.

Quello che Noé si è qui riproposto è di condurre un’esplorazione intorno a due dimensioni diverse: quella dell’armonia della danza (della vertigine vitale e dionisiaca che da essa si libera) e quella del deragliamento totale dei sensi, lo stesso che precipiterà il gruppo dei ballerini verso la perdita di sé. L’immersione nel magma visivo e sonoro entro cui lo spettatore è chiamato a calarsi conosce forme radicali ed estreme, giocate sulla dismisura, su un crescendo parossistico di tensione che sembra non dovere aver mai fine. Noé utilizza una colonna musicale ossessiva, dove Satie e i Rolling Stones convivono con brani di disco-music, e punteggia il racconto con l’inserimento di didascalie brechtiane (“Nascere e morire sono esperienze straordinarie. Vivere è un piacere fugace”) e con brevi scene dialogate a due o a tre, in cui i personaggi si confrontano prima di far venire allo scoperto tutto il rimosso: il loro lato animalesco, gli istinti atavici, primordiali. La macchina da presa, sempre libera, non cerca l’eleganza o la solida struttura (un autore come Noé, che vede nello stile il suo centro di eccitazione, mostrerà un certo disinteresse per il perfetto ingranaggio dell’intreccio: egli insegue piuttosto la disarmonia intenzionale, il disordine dell’opera inconclusa, l’urgenza della febbre creatrice e, insieme, il potere fascinatorio del ritmo, l’effetto ipnotico immediato, il coinvolgimento forzato dello spettatore). Il rischio del virtuosismo formale (lo stesso che grava sugli esiti complessivi di un’opera ambiziosissima e irrisolta come Enter the Void, del 2009) si avverte nella parte conclusiva del film, soprattutto quando il regista opta per un capovolgimento dell’immagine che spiazza e non poco.

Nicola Rossello

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