Assai liberamente ispirato a un romanzo di James Hadley Chase, a suo tempo già adattato per il grande schermo da Joseph Losey, Eva rappresenta per Benoît Jacquot l’approdo a una narrazione di impronta classica, una significativa rimessa in discussione del proprio fare cinema – che però i critici, al festival di Berlino, hanno dimostrato di non apprezzare affatto. L’accantonamento delle intenzioni avanguardiste del primo Jacquot ha fatto storcere il naso a chi, ormai da decenni, inalbera il vessillo del nuovo a tutti i costi: il nuovo dell’antispettacolarità sperimentale dell’antiracconto moderno, ovvero il nuovo dell’ipernarrazione ludica, formalista e manierista tipica della postmodernità. Di fatto, come è accaduto ad altri autori francesi a lui contemporanei (Téchiné, Garrel, Ozon, Denis, Honoré…), anche Jacquot ha avvertito il bisogno di appropriarsi di modi linguistici ed espressivi collaudati, contraddistinti dal ricorso a una sceneggiatura “forte”, un gioco attoriale di sorvegliata precisione (la prova di Isabelle Huppert e del compianto Gaspard Ullier è superba), una messa in scena solida, “invisibile”, priva di artifizi e leziosità formali.
L’adesione stessa al genere, l’impiego, nello specifico, di figure retoriche proprie del thriller psicologico, riassume un’idea di cinema tesa a coniugare insieme, secondo una tradizione consolidata, densità drammatica e rigore espressivo. Anche se poi il rapporto che Eva instaura con il genere si rivela per certi aspetti un rapporto problematico. Un particolare per tutti: la figura dell’eroe. Qui ci troviamo di fronte a un eroe che non suscita alcuna empatia, con cui ci è impedito di stabilire un’eccessiva intimità, una marcata identificazione. Accadeva talora anche nel cinema classico americano. Penso a certi personaggi di Robert Aldrich, ad esempio. Ma in questo caso i tratti sgradevoli del protagonista, un individuo per tanti versi detestabile e vile, la cui vita è basata sulla menzogna, sono esibiti con determinazione inedita. Vero è che Jacquot non arriva a fare di Bertrand Valade un eroe negativo. Lo sguardo con cui lo accompagna nella sua inesorabile deriva, è uno sguardo gelido, implacabile, ma tale in ogni caso da farci percepire il lato umano, creaturale del personaggio.
Bertrand ha lasciato morire un anziano drammaturgo inglese per impossessarsi dell’ultimo manoscritto di quest’ultimo e farlo passare per suo. Il clamoroso successo della pièce ha consentito a lui, un poveraccio senza estro né talento, di crearsi un altro sé, quello dello scrittore osannato dalle folle, e di inserirsi nel mondo esclusivo della borghesia intellettuale parigina (ora accanto a sé ha una giovane fidanzata di ottima famiglia e un editore che lo coccola a suon di anticipi in attesa del suo prossimo capolavoro).
E però vestire i panni di una personalità contraffatta e inesistente, sopportare il peso della sua nuova esistenza e condizione, significa per Bertrand esporsi a una sensazione di inadeguatezza. Nonostante il virtuosismo mimetico con cui riesce a coprire la propria impostura, il ruolo che si è imposto per accedere a una condizione sociale privilegiata lo mette inevitabilmente a disagio, consegnandolo allo spaesamento e alla spersonalizzazione di chi è costretto a vivere una vita che non gli appartiene.
Personaggio tutto proiettato su di sé, introverso, insoddisfatto, incapace ad adattarsi a una realtà che gli è estranea, Bertrand finirà per alimentare la propria componente autodistruttiva con masochistica determinazione.
A far esplodere il rapporto con il mondo dorato che lo circonda è l’incontro con Eva, una misteriosa prostituta d’alto bordo. Figura enigmatica, sfuggente e contraddittoria, incarnazione dell’insondabilità femminile (Bertrand non arriverà mai a distinguere la donna reale, che sessualmente lo attrae, da quella dell’invenzione romanzesca che egli si prova a imbastire su di lei attraverso i loro incontri), Eva si presenta altresì come un’entità inquietante e minacciosa, nella sua capacità di gestire liberamente il proprio corpo e i propri desideri. Dietro l’attrazione “irragionevole” che essa suscita in Bertrand si possono cogliere pulsioni oscure e inconfessabili, inconsci sensi di colpa (Eva, nuda nella vasca da bagno, è l’immagine speculare dello scrittore che Bertrand ha lasciato morire per soddisfare la propria brama di affermazione) e, al tempo stesso, l’esigenza, per il protagonista, di riappropriarsi della propria identità perduta, sottraendosi alla condizione asfittica a cui lo costringe la menzogna.
Bertrand cercherà invano di scoprire il volto segreto di Eva. E questa sua ostinazione testarda lo porterà a smarrire se stesso, la maschera di cui si era servito per coprire la propria mistificazione.
Nicola Rossello