Da anni ormai l’Associazione Amici di Palazzo della Meridiana lavora con impegno per mantenere desta l’attenzione sulla Genova pittorica del Sei e Settecento, promuovendo studi e ricerche e soprattutto preziose e intelligenti rassegne sull’argomento. Lodevoli in particolare quelle a carattere monografico su taluni esponenti della civiltà figurativa locale, artisti spesso poco conosciuti al vasto pubblico e di scarsa fortuna critica ed espositiva, ma di indubbio valore. Ricordiamo qui almeno la bella personale dedicata a Luciano Borzone nel 2015, nonché quella del 2017 su Sinibaldo Scorza.
La mostra “Straordinario e quotidiano da Strozzi a Magnasco. Umane contraddizioni negli occhi dei pittori”, in corso a Genova a Palazzo della Meridiana, curata da Agnese Marengo e Maurizio Romanengo e visitabile sino al 16 luglio 2023, raduna una quarantina di opere, tra dipinti e disegni, di artisti noti e meno noti che vanno dalla fine del Cinquecento alla prima metà del Settecento, seguendo un percorso tematico scandito da cinque distinte sezioni: “Straordinario e quotidiano”, “Miseria e nobiltà”, “Ozio e negozio”, “Santi e peccatori”, “Corpi svelati e abiti indossati”. L’intento dei curatori è quello di offrire, attraverso le figurazioni mitologiche, le scene di carattere devozionale o profano e i ritratti esposti in rassegna, una documentazione sufficientemente varia e articolata della vita quotidiana nella Repubblica di Genova negli anni della sua magnificenza (il “secolo d’oro” della città ligure) e del suo successivo inesorabile declino, consentendoci al contempo di analizzare da presso dipinti in larga parte conservati in case private e dunque di difficile visibilità.
Accanto alle opere di Bernardo Strozzi e di Alessandro Magnasco, i nomi indubbiamente più conosciuti e di maggiore richiamo per i visitatori della mostra (del primo abbiamo modo di apprezzare i raffinati e saporosi impasti cromatici di un’Adorazione dei pastori e di un’Annunciazione (Incarnazione), due telette dove pare di avvertire una consonanza linguistica con i modi veneti; del secondo, assieme ad alcuni disegni restaurati per l’occasione, tre scene di “genere” di piccole dimensioni, Il frate arrotino, Suore che filano e “Picaros” che giocano a carte, segnate dalla personalissima, inconfondibile scrittura pittorica dell’artista: colori lividi, terrosi, dove predominano le sfumature del marrone e del grigio, violenti contrasti tra accensioni luminose e ombre, pennellata guizzante, frantumazione delle forme), il brano più intrigante della rassegna resta forse I giocatori di Borzone, una tela di grande formato e di assai controversa interpretazione: intesa da alcuni studiosi come un Giobbe deriso (“Anche i monelli hanno ribrezzo di me, se tento di alzarmi mi danno la baia”, così nel Libro di Giobbe, 19,18), da altri come un Diogene schernito da tre monelli (si noti la botte sulla sinistra), o ancora, e più convincentemente (a parere di Lilli Ghio Vallarino), come una scena di taverna incentrata sul gioco delle carte, memore alla lontana, tanto nel tema come nell’alternarsi drammatico di luci e oscurità profonde, di certo compiaciuto pittoresco di derivazione caravaggesca che pur si respirava a Genova in quegli anni.
Ché i più talentuosi e acclamati interpreti della scuola genovese del tempo, traendo indubbiamente profitto dalla lezione di Rubens e Van Dyck (entrambi attivi nel capoluogo ligure nel primo Seicento), avevano saputo esercitarsi e assorbire le suggestioni del realismo di Caravaggio, e in particolare dei suoi seguaci napoletani, ma per incanalarle lungo un linguaggio figurativo del tutto nuovo, sensuale, esuberante, festoso, nutrito di un gusto teatrale già barocco.
Un’impaginazione scenica di spiccato gusto teatrale, e pur impostata su uno studiato rapporto tra i pieni e i vuoti, presenta Danae e la pioggia d’oro di Bartolomeo Guidobono, un dipinto che può vantare altresì una tavolozza dai toni morbidi, presettecenteschi, tipici dell’artista, laddove l’esecuzione pittorica di Giove e Antiope di Gioacchino Assereto è tutta giocata sui vigorosi contrasti tra i bianchi delle carni nude, permeate di luce, della donna e il fondo scuro e indefinito da cui emerge minacciosa la figura del dio. E qui, come nella Giuditta con la testa di Oloferne di Domenico Fiasella, l’artista ligure maggiormente legato, nel suo eclettismo, alle istanze naturalistiche caravaggesche, non siamo tanto lontani da certe soluzioni pittoriche di un Ribera o di un Battistello Caracciolo.
Tra le opere che compongono l’itinerario espositivo spiccano ancora alcune tele del Grechetto, Natura morta con il viaggio dei figli di Giacobbe sullo sfondo e Natura morta con incontro tra Abramo e Melchisedech, quadri che ripropongono il repertorio consueto di immagini rustico-pastorali che hanno fatto la fama dell’artista – il quale, ben si sa, utilizzava spesso le scene bibliche come semplice espediente per esibire il proprio talento di vivace ed estroso pittore di animali e masserizie; nonché alcuni aggraziati, piacevoli ritratti di dame di alto lignaggio e gentiluomini genovesi: il Ritratto di Maria Carpineto del Mulinaretto e il Girolamo Doria di Domenico Piola; nonché alcuni briosi brani di vita quotidiana dell’anversano ormai italianizzato Cornelis de Wael: Schiavi al porto, Veduta con rocca e marinai a riposo e Allegra brigata; un’Adorazione dei Magi di Andrea Semino, legata a moduli ancora arcaici; un quadro devozionale di piccolo formato di Domenico Piola, raffigurante, attraverso una stesura sfatta e pur preziosa, le Nozze di Cana.
Nicola Rossello