Quando nel 1682 Luca Giordano giunge a Firenze chiamato dalla famiglia Corsini a decorare la propria cappella gentilizia in Santa Maria del Carmine, è un artista ormai pienamente affermato, apprezzato dagli intenditori e conteso dalle più potenti corti nobiliari e principesche della Penisola. In un suo Autoritratto risalente proprio a quegli anni egli si rivolge allo spettatore con lo sguardo bruciante e altezzoso di chi sa di aver acquisito fama e successo. Pittore prodigiosamente prolifico (le fonti gli attribuiscono una produzione sterminata: qualcosa come cinque mila quadri da cavalletto, oltre a svariate imprese ad affresco su scala monumentale), tanto rapido con il pennello da meritare il soprannome di “Luca fa presto”, Giordano era conosciuto altresì per essere un professionista di estroso talento, straordinariamente libero e inventivo, capace di tradurre in immagini eloquenti le esigenze della committenza e di assimilare le esperienze figurative più varie, antiche e moderne, con cui veniva a contatto, per ricondurle a una cifra stilistica personale e riconoscibile, dove una virtuosistica maestria esecutiva era messa al servizio di una formidabile esuberanza creativa.
Nato a Napoli nel 1634, Giordano aveva vissuto la fase iniziale della sua formazione artistica sotto il segno del naturalismo caravaggesco, di Ribera in particolare, presso la cui bottega aveva trascorso un periodo di praticantato di sette anni. Una tela come Apollo e Marsia, con il suo truce, raccapricciante verismo, si configura come un vero e proprio tributo all’”estetica dell’orrore” del maestro spagnolo. Una dipendenza che riaffiorerà a quando a quando anche negli anni della produzione più matura e consapevole di Giordano: ad esempio, nel Giaiele e Sisara, la cui tetra e brutale intensità espressiva appare all’evidenza come un ritorno intenzionale alle proprie radici, alla maniera truce e tenebrista dello Spagnoletto.
La rassegna di palazzo Medici Riccardi (visitabile sino al 5 settembre 2023), nel documentare la presenza del maestro napoletano a Firenze negli anni che vanno dal 1682 al 1686, ha scelto di privilegiare i raggiungimenti della piena maturità di Giordano, e dunque la fase successiva ai suoi soggiorni di lavoro a Venezia e a Roma, durante i quali egli ebbe modo di scoprire da un lato la grande tradizione coloristica della scuola veneta del Cinquecento (Veronese e Tiziano su tutti), dall’altro i modi solenni e teatrali dell’allora predominante stile barocco, lo stesso praticato da Rubens, Lanfranco, Maratta, Gaulli, Cortona.
E sarà in particolare la scoperta della “grande maniera” di Cortona, il caposcuola indiscusso della decorazione barocca, a giocare un ruolo determinante in Giordano, soprattutto dopo il 1671, anno in cui egli pure fu chiamato a cimentarsi per la prima volta con un’impresa decorativa di vaste dimensioni, gli affreschi per la chiesa di San Gregorio Armeno a Napoli, un’esperienza decisiva che lo indurrà a schiarire la propria tavolozza e a conferire alle sue scene maggior dinamismo ed esuberanza sensuale.
Tra i dipinti riconducibili a una committenza fiorentina, o comunque presenti nelle migliori collezioni della città già prima del 1682, si segnalano in mostra le opere di soggetto mitologico o biblico in cui Giordano ebbe modo di esprimere al meglio la sua vena più sonora, vibrante, lussuosa: Atalanta e Ippomene, l’immagine guida della rassegna: un affresco su vimini condotto con agile, virtuosistica stesura, ricorrendo a una tavolozza luminosa, ridotta a poche gamme; Enea sconfigge Turno ed Enea curato da Venere: due tele in pendant dalla complessa macchina scenica, giocate sulla solenne monumentalità delle figure e sulla freschezza degli accordi cromatici; Il ratto di Proserpina: una composizione dal ritmo incalzante, drammaticamente movimentata, dove il senso carnoso e tattile dei corpi nudi è unito alla forza del colore. E poi ancora Marco Curzio che si getta nella voragine, Il giudizio di Paride, Il trionfo di Galatea, Susanna e i vecchioni, Lot e le figlie: quadri tutti eseguiti in uno stile robusto, impetuoso, pieno di vigore.
Analoga ricchezza inventiva, ma una più contenuta foga dinamica Giordano mette in atto nelle opere a carattere devozionale da lui dipinte in quegli stessi anni: Cristo e la samaritana al pozzo, dove pure egli si misura con la tecnica tipicamente fiorentina dell’affresco su vimini; Allegoria della Speranza e Fuga in Egitto, ambedue realizzate per incarico di Vittoria della Rovere, la madre del granduca Cosimo III; Cristo davanti a Pilato, Andata al Calvario, Deposizione di Cristo…
Il clou dell’esposizione è costituito senza dubbio dagli affreschi della volta della Galleria degli Specchi (Gloria dei Medici) di palazzo Medici Riccardi: una grande impresa decorativa che i curatori della rassegna hanno inteso porre a confronto con i cosiddetti “ricordi” della National Gallery di Londra (bozzetti eseguiti in preparazione dell’intervento pittorico? Lavori realizzati dopo l’affrescatura? I pareri, tra gli studiosi, sono discordi). Una commessa prestigiosa, quella che Giordano riceve dai Riccardi, una famiglia di banchieri da sempre fedele ai Medici, da cui avevano acquistato nel 1659 il palazzo avito (lo stesso che custodisce al suo interno la celeberrima Cavalcata dei Magi di Benozzo Gozzoli). Un incarico di grande portata che, segnando un mutamento di passo nell’evoluzione di Giordano da pittore barocco a pittore che anticipa in qualche misura la stagione del Rococò, consente al maestro napoletano di misurarsi direttamente con le formule figurative di Cortona. Il quale Cortona, tra il 1637 e il 1647, proprio lì a Firenze, a palazzo Pitti, aveva eseguito un importante lavoro ad affresco che aveva impressionato l’ambiente artistico locale.
A palazzo Medici Riccardi Giordano imposta uno spettacolo di respiro largo, arioso, irrigato di luce, dispiegando la propria vena di frescante esuberante e lirico al tempo stesso, capace di dominare i grandi spazi decorativi realizzando con fare agile e spedito (la volta della Biblioteca, stando alle testimonianze, fu ultimata in cinque giorni!), una serie di scene che a una narrazione fluente, “aperta”, permeata di un senso di spazialità continua, univano un linguaggio pittorico spigliato, di musicale eleganza, dove la magnificenza epica e l’horror vacui del Barocco venivano smussati a favore di un diverso equilibrio tra pieno e vuoto (ampi spazi sono lasciati a un cielo nitido, di intensa luminosità) e di un’impaginazione più sciolta, caratterizzata da soluzioni cromatiche limpide, brillanti, che preludono alla briosa, aggraziata leggerezza del Settecento veneziano: la leggerezza di Tiepolo, Sebastiano Ricci, Pellegrini.
Nicola Rossello