“Libération” la ha definita l’erede naturale di Sandrine Bonnaire e Juliette Binoche. Fuori di dubbio, è una delle attrici più interessanti del cinema contemporaneo, il volto più intenso ed espressivo tra le interpreti francesi della sua generazione, l’ormai nutrito stuolo di nuovi e straordinari talenti (Romane Bohringer, Sandrine Kimberlain, Fabienne Babe, Natacha Régnier, Isabelle Carré, Anna Mouglalis, Isild Le Besco…) emersi con prepotenza nel decennio appena trascorso.
La si direbbe un’attrice intuitiva, dotata di una sensibilità e di una consapevolezza tecnica istintive e innate: naturalità espressiva che poi, come è pur risaputo, risulta essere sempre il frutto di un lavoro rigoroso di studio e di approfondimento. Solo che, di fronte alla stupefacente spontaneità e immediatezza con cui Elodie Bouchez affronta la scena, si ha davvero l’impressione di assistere a qualcosa di prodigioso. Ancor giovanissima, ha saputo accostarsi ai suoi personaggi col piglio della consumata veterana, quasi fosse consapevole da sempre dei propri mezzi. Già nelle sue primissime prove, la sua felice inesperienza le ha consentito di eludere i tranelli della facile tipizzazione (la parte impostata a tavolino, sui rassicuranti artifizi del mestiere). Piuttosto che costruire pezzo per pezzo i propri ruoli di adolescente secondo preordinati e costrittivi procedimenti professionali, Elodie Bouchez ha inteso restituire, davanti alla macchina da presa, qualche tratto che le appartenesse, offrendo come in dono al nostro sguardo una parte importante di se stessa; vivendo per noi, quasi in tempo reale, gli stupori e i tremori, le esaltazioni e gli scoramenti della sua giovane età. Attraverso le sue prime intensissime performance, ci ha resi partecipi – testimoni affascinati e commossi – della sua progressiva apertura al mondo, e di quanto quella rivelazione venisse a significare ai suoi occhi.
Les roseaux sauvages (1994) le consegna il suo primo personaggio complesso e sfaccettato. Strutturato come un classico racconto di formazione, il film di André Téchiné scandaglia l’universo affettivo adolescenziale inseguendo le radici di una sessualità ancora inespressa, malata di insicurezza. Di fatto, la pellicola si presenta come una trepida ricognizione sulla quotidianità inquieta di chi, come i quattro protagonisti della vicenda (e i loro giovanissimi interpreti), assiste turbato e confuso alla propria faticosa trasformazione fisica e interiore, e già aspira a dare un senso alla propria esistenza confrontandosi con le certezze illusorie della maturità. Elodie Bouchez vi tratteggia la figura di Maité, una ragazza che, unitamente alla freschezza e alla vulnerabilità della fanciulla in fiore, possiede l’intransigenza scostante di chi, nonostante la sua giovanile età, ha imparato a leggere nel cuore degli uomini. Attraverso questo personaggio, la Bouchez giunge a confidarci qualcosa di segreto e di assai prezioso: la forza imperiosa delle emozioni di un’adolescente; il disagio e la determinazione priva di incrinature con cui una ragazzina si abbandona, per la prima volta, all’esperienza dell’amore e del sesso. Allo stesso modo, lo sguardo intenso della giovane attrice, i suoi grandi occhi neri e penetranti ci dicono della sua attitudine a cercare un contatto diretto con le persone, per cogliere, oltre le apparenze (oltre i pregiudizi e le maschere sociali), la natura vera degli individui. Così Maité saprà indovinare nel rancore del pied-noir che, fuggito dall’Algeria, va meditando la sua feroce vendetta, un inconfessato e struggente desiderio di tenerezza, qualcosa di autentico, a cui essa non esiterà ad affidare il proprio bisogno di amare ed essere amata. Il confronto con lo straniero, ha scritto giustamente qualcuno, rivela Maité a se stessa, mettendone allo scoperto la sua più intima natura di donna. Allo stesso modo, l’incontro con Téchiné consente alla Bouchez di discoprire e far emergere con forza le proprie eccezionali possibilità espressive.
Quattro anni dopo, ne La vita sognata degli angeli, Elodie Bouchez si rappresenta nel ruolo di Isa, una figura radiosa, solare; un’innocente che, nella sua disarmata dolcezza e, insieme, nella sua apertura al caso e agli esseri (il suo nomadismo come ricerca di nuove occasioni di incontro, di amicizia, di affetto), è capace di esprimere, senza mediazioni, l’istintiva gioia di vivere e di amare, la serenità luminosa di chi è ancora ignaro delle miserie dell’esistenza (capace tuttavia – un segno di elezione che Isa condivide con Maité – di vedere lucidamente le meschinità e le debolezze di chi le sta accanto, e di mostrarsi risentita, delusa, di fronte alla protervia becera del giovane ricco, o al “tradimento” dell’amica del cuore). E davvero, nelle movenze ancora sgraziate del suo corpo, nei suoi gesti e nei suoi sguardi, colti dalla macchina da presa nel momento esatto della loro massima espressività, la Bouchez riesce a comunicarci la verità assoluta di un’emozione, la giustezza di un sentimento: la densità di quegli slanci affettivi che segnano tutta una vita. Un personaggio, quello di Isa, vivo, toccante, autentico nella sua particolarità; accarezzato con una sorta di tenerezza rattenuta e accorata dallo sguardo di Erick Zonca (la fascinazione dell’interprete ha agito, con ogni evidenza, sulla mano del regista). Uno sguardo che, attraverso una serie insistita di piani ravvicinati, si accosta con delicatezza al corpo e al volto dell’attrice per esaltarne i tratti di una bellezza quasi androgina e ancora acerba: quella bellezza sfuggente e conturbante a un tempo, che traspare dai corpi ancora immaturi, incompiuti (e che qui è messa opportunamente a contrasto con la sensualità più classica, più vicina ai canoni tradizionali, di Natacha Régnier).
Se Les roseaux sauvages è l’atto felice della scoperta, La vita sognata degli angeli segna la definitiva consacrazione dell’attrice, sanzionata anche in forma ufficiale dal premio al festival di Cannes: due interpretazioni che restano a tutt’oggi i momenti più alti di una filmografia all’insegna del rigore e del coraggio. In mezzo, il percorso artistico della Bouchez annovera alcune esperienze interlocutorie: tra queste (e per tacere di ruoli di minor impegno e minor prestigio: la piccola apparizione nel mediocre Ritratto nella memoria di Ismail Merchant, 1996, ad esempio), si possono ricordare di passata A tout vitesse (Gael Morel, 1996) e Louise – Take 2 (Siegfrid, 1998): due film in cui la giovane interprete si è posta al servizio di progetti ambiziosi, ma per molti versi irrisolti, su cui avrebbe pesato l’inesperienza o l’insipienza della regia (affidata in entrambi i casi a cineasti alle prime armi). Paradossalmente, le carenze nei dispositivi della messa in scena hanno consentito all’attrice di dare pieno risalto alle sue performance. Abbandonata al suo destino, costretta in qualche modo ad amministrare da sé il proprio talento, Elodie Bouchez ha dato prova di carattere, forza emozionale, senso del ritmo, sì da plasmare e affinare un proprio stile aggressivo di recitazione, e adattare il rapporto interprete/personaggio alle sue personali inclinazioni. Si tratta, insomma, di pellicole il cui vero “soggetto”, o quanto meno il principale motivo di interesse, consiste appunto nell’apporto recitativo dell’interprete femminile, nella tensione mai allentata che essa ha saputo conferire alle sue prestazioni.
In Lovers (1999) Elodie Bouchez ripropone, con la figura di Jeanne, alcuni motivi del “suo” personaggio: l’inquietudine e l’irrequietezza istintiva, il bisogno imperioso di riconoscersi nel rapporto con la persona amata, l’innocenza che si traduce in disponibilità indefinita al colloquio umano, la recettività come spinta alla diversità, dove il confronto con l’altro (in questo caso, un pittore jugoslavo privo di permesso di soggiorno) diviene occasione per l’attraversamento di una cultura e una quotidianità sconosciute, straniere. Ricorrendo a una messa in scena dura e scostante, la regia di Jean-Marc Barr (un collaboratore di Lars von Trier, che qui ha creduto bene di restare vicino alle indicazioni prescrittive del maestro) mira a restituire l’impressione di immediatezza e di autenticità del vissuto, cercando di cogliere la piena spontaneità dei corpi, dei gesti, dei volti, degli sguardi, degli stessi silenzi, prima ancora che delle parole (i due protagonisti si parlano in inglese, una lingua che non è la loro). Priva di dialoghi è l’indimenticabile scena conclusiva della pellicola, un lunghissimo piano-sequenza di struggente bellezza, in cui Jeanne ci trasmette il suo indicibile sgomento per la perdita dell’uomo amato.
Meno convincente, forse, la prestazione di Elodie Bouchez in Tutta colpa di Voltaire (Abdel Kechiche, 2000), un’opera più che dignitosa, dove tuttavia la presenza dell’attrice – qui nelle vesti di una psicolabile a cui l’amore di un immigrato meghrebino restituisce la gioia di vivere – non sembra aver trovato l’esatta collocazione. Il suo ingresso in scena, a metà circa del film, non viene infatti ad integrarsi in un insieme armonico, coerente, traducendosi piuttosto in una brusca variazione espressiva. Ne nasce una sorta di squilibrio. Come qualcuno ha fatto notare, la pellicola assume, d’improvviso, un andamento espositivo nuovo, poco controllato, che rimette in discussione i presupposti del racconto. Maurizio Porro, riferendosi alla Bouchez, è giunto a definire la sua recitazione “tutta di maniera e sopra le righe”. In realtà, se pure è vero che Elodie Bouchez in questo caso dà a tratti l’impressione di essere condotta fuori misura, ciò avviene perché non ha potuto trovare nel progetto espressivo del regista (ancora una volta un esordiente, con le titubanze tipiche degli esordienti) un sostegno adeguato ed efficace. In sé, quella di Lucie, è una figura profondamente umana e “vissuta”, sorretta da una costruzione psicologica rigorosa. E il virtuosismo, il “respiro emotivo”, la densità drammatica con cui la Bouchez conduce la sua interpretazione sono tali da far convergere sul personaggio le linee tensive del racconto, nonché la rapita adesione dello spettatore.
A conti fatti, è proprio questo il filo rosso che attraversa le differenti prestazioni dell’attrice. Qualunque sia la parte che di volta in volta è chiamata a rivestire, Elodie Bouchez si applica, in realtà, a una ricerca ostinata e costante: quella del personaggio e della sua assoluta verità emozionale. Una volta ancora, quello a cui, attraverso le sue performance, ci è dato di assistere, e che tanto ci affascina e ci sconvolge, è la verità scandalosa delle emozioni, la credibilità di un percorso, quello del desiderio amoroso, accompagnato spesso dal suo primo embrionale sviluppo alla sua affermazione imperiosa. Un percorso che il cinema francese torna a riproporci, oggi, in forme sempre nuove e sempre uguali a se stesse, attraverso la mediazione – determinante – dei suoi giovanissimi e straordinari interpreti.
Nicola Rossello