Diviso in tre tempi distinti, ognuno dei quali chiuso su se stesso, il film di Nicolas Saada trova, paradossalmente, i suoi momenti migliori, più vivi e incisivi, nella sua prima parte e in quella conclusiva, piuttosto che nella sezione centrale che, almeno sulla carta, avrebbe dovuto costituire il cuore del racconto.
Se le scene iniziali della pellicola, adottando un ritmo volutamente lento, quasi svagato, curiosamente trattenuto, ci restituiscono la solitudine e l’intimo disagio della protagonista – un’adolescente ombrosa e introversa come tanti adolescenti della sua età -, e rendono appieno il senso di spaesamento da lei percepito nella suite del lussuoso albergo di Mumbai, dove è alloggiata con i genitori, o lungo le strade della città, luoghi di transito che schiudono a un universo “altro”, dove il richiamo al Resnais di Hiroshima mon amour e L’anno scorso a Marienbad non è casuale; la sequenza finale di Taj Mahal ci dice (e qui il racconto assume un tono asciutto e dolente, in funzione di anticlimax) della volontà vana di rimuovere i ricordi di un passato traumatico: sul volto di Louise (un’intensa Sptacy Martin) possiamo cogliere l’amara consapevolezza che l’esperienza dell’orrore resterà in ogni caso una cicatrice insanabile nella sua memoria, una ferita che non potrà alleviarsi in nessun modo, e che prolungherà all’infinito il tormento e lo strazio (Taj Mahal non è un film rassicurante: ci parla del terrorismo islamico come di realtà atroce ma ineluttabile, con cui continueremo a dibatterci dolorosamente).
Vero è che l’attenzione dello spettatore è soprattutto rivolta al nucleo principale del racconto, quello che ci descrive, attraverso un lento crescendo drammatico, l’attentato di Mumbai del novembre del 2008: un fatto di cronaca vera – una strage che costò la vita a quasi duecento persone – che Saada ricostruisce procedendo, sul piano drammatico, attraverso il rifiuto, l’ellissi (non vengono mostrate scene di violenza o di sangue), adottando esclusivamente il punto di vista dell’eroina (si sentono gli spari, le urla, i gemiti come Louise li percepisce, attutiti, dalla sua camera d’albergo) e conferendo alla narrazione le cadenze oniriche di un film dell’orrore. Il racconto si dilata in una visione di sogno malefico: lo stesso che, oggi, sembra aver invaso definitivamente le nostre esistenze, con le sue paure e le sue ossessioni. Il ritorno in Francia, per la ragazza, anziché segnare il ritorno alla normalità della vita quotidiana, la riappropriazione di sé, sembra escludere la possibilità di un definitivo riscatto dal Male: i tapis roulants della metropolitana di Parigi diventano allora, per Louise, uno spazio inquietante e minaccioso quanto i corridoi spettrali, kubrickiani, dell’hotel Taj Mahal.
Saada è stato per lunghi anni un critico di vaglia per i “Cahiers du cinéma” (curiosamente, la rivista ha mostrato di non apprezzare la pellicola del suo ex collaboratore). Qui, alla sua prima esperienza nel lungometraggio, egli riesce a far emergere la propria personalità registica adottando una scrittura sobria, funzionale, un’encomiabile economia espressiva che, ricusando le comode scorciatoie della spettacolarità e gli ingombri melodrammatici, mira a imbastire un racconto claustrofobico in unità di luogo che trova uno dei suoi punti di forza nella recitazione in levare degli interpreti.
Nicola Rossello
Scheda film
Titolo: Taj Mahal
Regia: Nicolas Saada
Cast: Stacy Martin, Louis-Do de Lencquesaing, Gina McKee, Alba Rohrwacher, Fred Épaud
Durata: 91 minuti
Genere: Drammatico
Distribuzione: Bac Films
Anno: 2015