“Remo Bianco. Le impronte della memoria” è il titolo della mostra allestita al Museo del Novecento di Milano e aperta al pubblico dal 5 luglio al 6 ottobre 2019.
L’esposizione, curata da Lorella Giudici, presenta oltre 70 opere che ripercorrono le fasi della ricerca di Remo Bianco (Milano, 1922-1988) e ne rappresentano i percorsi di vita e di lavoro.
Nella Milano del boom economico, in un’atmosfera culturalmente ed economicamente produttiva, il giovane Remo Bianco conosce e frequenta il pittore Filippo de Pisis e il suo entourage.
Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta si collocano le prime “Impronte”, calchi in gesso, cartone pressato o gomma ricavate dai segni lasciati, ad esempio, da un’automobile sull’asfalto, o da tracce di oggetti comuni, giocattoli o attrezzi. L’intento dell’artista è quello di recuperare “le cose più umili che di solito vanno perdute”, come esprime nel “Manifesto dell’Arte Improntale” del 1956. Risalgono all’inizio degli anni Cinquanta anche i “Sacchettini – Testimonianze”, realizzati assemblando oggetti di poco valore – monete, conchiglie, piccoli giocattoli, frammenti – in sacchetti di plastica fissati su legno in una disposizione regolare e appesi come un quadro tradizionale.
Dello stesso periodo sono anche le prime opere tridimensionali – i 3D – in materiale plastico trasparente o vetro e, successivamente, su legno, lamiera e plexiglas colorato, dove l’immagine è la combinazione di figure poste in successione su piani differenti, che ne esaltano la profondità.
La serie dei “Collages”, sviluppata invece nella seconda metà degli anni Cinquanta fino agli anni Ottanta in seguito a un viaggio negli Stati Uniti, si basa su un effetto combinatorio di immagini, realizzate con la tecnica del dripping su un unico piano, di tela, carta o stoffa.
Al 1957 risalgono i primi “Tableaux Dorés”, che costituiscono uno dei cicli più noti dell’artista, oltre che il più duraturo. Lo sfondo bicolore, trattato a olio o a smalto, su cui sono disposte le foglie d’oro, presenta una parte bianca accostata a colori primari. Altri hanno lo sfondo monocromo o sono realizzati con paglia o stoffa.
A partire dal 1965 l’artista dà vita ad alcune opere racchiuse sotto la definizione di “Arte sovrastrutturale” che, mediante un atto di “appropriazione artistica” di oggetti, cose e persone, esprimono l’esigenza di fissare nella memoria in modo indelebile ricordi e realtà.
I “Quadri parlanti” sono invece tele in alcuni casi non lavorate in cotone bianco o nero, in altre impressionate con fotografie, sul cui retro sono posizionati degli amplificatori che, all’avvicinarsi dello spettatore, si attivano emettendo suoni o frasi registrate dall’artista.
La mostra, accompagnata da un catalogo pubblicato da Silvana Editoriale, è promossa dal Comune di Milano|Cultura ed è ideata e realizzata dal Museo del Novecento in collaborazione con la Fondazione Remo Bianco.